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L'inverno demografico d'Europa visto dalla Germania. Uno studio

Daniel Mosseri

La non-soluzione dell’immigrazione e gli strascichi della crisi sulla penuria di nuove vite nel continente più vecchio

Berlino. In un continente con tassi di fertilità ai minimi storici e una popolazione in diminuzione e invecchiamento, all’aumentare del numero dei pensionati, la prosperità del passato può essere mantenuta solo se una forza lavoro di dimensione ridotta riesce in una duplice e non facile impresa: mantenere alto il volume di beni e servizi prodotti e sostenere un numero crescente di lavoratori a riposo. Sfide che rendono la questione demografica di rilevanza strategica. L’Istituto di Berlino per la popolazione e lo sviluppo ne ha fatto il centro del suo ultimo studio: “Europas demografische Zukunft” (il futuro demografico dell’Europa). Secondo il pool di economisti, geografi e sociologi che hanno preparato l’analisi, l’invecchiamento del europeo porta a un’immediata conseguenza socio-politica: ci muoviamo verso una maggiore redistribuzione. Il che non significa che le tesi della sinistra socialista o post-socialista siano destinate a prevalere, ma che, sulla base della nuova configurazione demografica, “ogni individuo lavorativamente attivo potrà tenere per sé una percentuale più bassa del suo reddito rispetto al passato”, dice lo studio. Un aggiustamento tanto più necessario nei sistemi a sanità pubblica e in quello pensionistico.

 

L'Istituto di Berlino per la popolazione e lo sviluppo dice che per tenere stabile il rapporto giovani-vecchi "servirebbe un numero tale di immigrati la cui integrazione è irrelistica". Due figli per coppia? Una chimera. Critica la situazione in sud Italia. A differenza del passato, chi ha poco fa meno figli

Angela Merkel, leader di uno dei paesi meno fecondi d’Europa, ha provato a combattere il problema alla radice spalancando le porte a un’ondata di immigrati mediamente molto più giovani dei tedeschi. Due giorni fa, durante un comizio elettorale in Sassonia, la cancelleria ha replicato agli insulti di un gruppo di sostenitori del partito xenofobo Alternative für Deutschland, rivendicando la politica di accoglienza da lei decisa: “Alcuni sanno solo urlare – ha detto – Noi abbiamo dimostrato che la Germania aiuta le persone in difficoltà”. Al netto delle considerazioni politiche, l’immigrazione è pero solo uno dei possibili molteplici rimedi contro la crisi delle culle, e peraltro discusso. E’ noto che i nuovi residenti si adattano presto ai ritmi demografici dei loro ospiti. E inoltre – come afferma l’istituto di Berlino – “per tenere costanti i rapporti fra le classi di età della popolazione servirebbe un numero tale di immigrati” la cui integrazione nella società “non è realistica”. Neppure fare più bambini oggi basta a risolvere l’emergenza: prima che le nuove leve inizino a lavorare, centinaia di migliaia di quasi 70enni saranno in pensione. Secondo i ricercatori, bisogna puntare sulla rapida integrazione nel mondo del lavoro di chi oggi resta fuori: donne, lavoratori a bassa specializzazione, immigrati già residenti. Alcuni paesi e città d’Europa (Londra, Svizzera, Stoccolma, Lussemburgo, per citarne alcuni) riescono a farlo meglio degli altri: attirano persone produttive che “rubano” sostanzialmente a altre regioni, destinate al declino.

 

Lo studio berlinese non è però improntato solo pessimismo: secondo gli analisti, prima della crisi finanziaria il tasso di crescita della popolazione europea si era avvicinato al valore della sostenibilità – che non è più l’araba fenice dei 2,1 figli per ogni donna ma un più realistico 1,8. Oggi il tasso è di 1,58, ancora troppo vicino al pericoloso 1,5 che può portare la popolazione europea “a dimezzarsi nei prossimi 65 anni”. Ma se nel 2011 eravamo a 1,46, nel 2008 il numero medio dei figli per donna era risalito quota 1,61. Il che significa che – al netto delle politiche per la famiglia – la crescita economica resta il principale volano di quella demografica. E’ stata la crisi finanziaria del 2008 a far scendere la media. Perché sempre di medie stiamo parlando: in Europa le nascite vanno relativamente bene al nord e all’ovest, mentre le culle restano vuote al sud e all’est: zone da dove i giovani si spostano in cerca di miglior fortuna.

 

Sotto questo profilo, ma non solo, l’Italia sembra una piccola Europa: abbiamo qualche eccellenza accompagnata da una lunga lista di grandi difficoltà. Agli studiosi tedeschi, lo stivale appare sempre più una terra di contraddizioni, segnata da problemi “di origine largamente domestica, nati prima della crisi del 2008”. Problemi strutturali che hanno portato l’Fmi a predire per gli italiani un ritorno ai livelli di benessere del 2007 solo nel 2025, quando altri stati Ue avranno superato i livelli pre-crisi del 20-25 per cento. Lo studio spezza una lancia a favore delle riforme di Renzi, citando “la liberalizzazione in vari settori economici e le agevolazioni per gli investitori”. La situazione deve migliorare rapidamente perché “l’invecchiamento della popolazione è più avanzato che in qualunque altro paese europeo”. Che l’Italia non fosse un paese né di giovani né per i giovani si sapeva, ma la condizione è critica: con 37 persone over 64 ogni 100 in età attiva (20-64), l’indice di dipendenza degli anziani è il più alto d’Europa. L’età mediana degli italiani è 45,5 anni, contro il 36,6 dell’Irlanda mentre la Liguria è la regione più vecchia del continente. Anche a neonati va male: la media è 1,35 a donna e non si vedono segnali di miglioramento: “In Molise, Basilicata e Sardegna il tasso di fecondità è fra i più bassi d’Europa” (a quota 1,2 bambini). Gli studiosi non sono sorpresi. Il direttore dell’istituto berlinese Rainer Klingholz spiega al Foglio che a differenza di cinquant’anni fa oggi in Europa del sud non si fanno figli in coincidenza con periodi di crisi economica, prima invece una famiglia non si poneva questo tipo di problema pur in condizioni di sostanziale indigenza. “In Europa non esistono regioni con un tasso di occupati più basso come in Calabria, Campania e Sicilia” e “la partecipazione delle donne al lavoro è del 52 per cento, il secondo peggior risultato Ue, dopo quello greco”, dice il rapporto. Anche quando il lavoro c’è, sono gli asili a mancare. Secondo le proiezioni dell’istituto tedesco, la Basilicata perderà un altro 16 per cento dei suoi abitanti entro il 2050. Il calo demografico è solo parzialmente tamponato dagli sbarchi al sud, con 300 mila arrivi fra il 2015 e il 2016, ma non si tratta certo di persone attratte dal mercato del lavoro italiano, quanto di migranti che vorrebbero andare più a nord, “e che – aggiunge Klingholz – bivaccano per le strade della Sicilia, di Napoli o di Genova senza nessuna prospettiva”. Quello che più colpisce il direttore dell’istituto circa il caso italiano non è la frattura nord-sud, “anche noi tedeschi ne abbiamo una est-ovest”, quanto l’aumento del divario, perché se è vero che l’ex Ddr è rimasta indietro, “negli ultimi 25 anni la differenza fra le due Germanie è diminuita”.

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