Matteo Renzi (foto LaPresse)

Tutti i "danni" provocati dalla vittoria del No al referendum

Lorenzo Borga

Dalle proteste dei No-Tap a quelle contro le province fino all'emendamento su Flixbus. Un fact checking spiega con numeri e dati cosa avremmo potuto risparmiarci se il 4 dicembre scorso le cose fossero andate diversamente

Sembra un’èra, ma sono trascorsi solo quattro mesi da quel referendum costituzionale che (quasi) tutto ha cambiato nella politica italiana. Un lasso di tempo ragionevole per trarne i primi bilanci e verificare la fondatezza di alcune affermazioni e previsioni dei due opposti schieramenti: troppo spesso alla classe politica è concesso parlare in libertà, senza alcuna pretesa di correttezza. Ma d’altra parte l’accountability non va applicata ai soli politici, ma pure agli stessi cittadini. È stata infatti la maggioranza assoluta degli elettori a determinare la vittoria del No, che non può certo essere esentata dal principio di rendicontazione e verifica degli effetti.

 

Vista la netta vittoria del fronte contrario alla riforma, tre sono le situazioni che possono essere poste sotto la lente del fact checking: le previsioni del fronte del Sì in caso di bocciatura della riforma, le soluzioni alternative proposte dal No alla riforma Renzi-Boschi e gli effetti diretti verificabili della vittoria del No sulla vita di ciascuno di noi. Non compiti semplici, in particolare il terzo, per via delle innumerevoli variabili che determinano la nostra quotidianità ed anche la politica: non saranno perciò verificabili la caduta del governo Renzi, né la scissione del Pd, e ancora la manovra aggiuntiva di 3,4 miliardi richiesta dalla Commissione. Questo per via della regola aurea della statistica: “Correlation does not imply causation”, per cui una correlazione anche temporale tra due avvenimenti non può definirsi di per sé in un effetto di causa-effetto.

 

Falsi presagi del Sì

 

Gran parte della retorica a favore della riforma costituzionale era basata sugli effetti negativi che avrebbe portato una vittoria del No. Tanto che in piena campagna referendaria scattò l’allarme dalla sala dei bottoni renziana per evitare l’effetto Brexit – per cui tutto l’establishment finanziario e politico presagì effetti economici disastrosi in caso di fuoriuscita dall’Europa – tanto da provocare un effetto di orgoglio e sfida negli elettori. In tanti ricorderanno per esempio le previsioni economiche del centro studi di Confindustria in caso di vittoria del No: recessione nel 2017, meno 4 per cento del pil in tre anni, perdita di 600mila occupati, crollo del 17 per cento degli investimenti e aumento di quasi mezzo milione di poveri. Un bollettino di guerra che oggi appare distante dalla realtà. In attesa dei nuovi dati del Documento di economia e finanza, le ultime stime della Commissione Europea aggiornate a febbraio prevedono una crescita del pil dello 0,9 per cento per l’anno in corso e dell’1,1 per il 2018. Gli investimenti dovrebbero crescere del 2,7 per cento nel 2017 e non è prevista nessuna perdita di posti di lavoro, anzi.

 


Andamento dello spread BTP Italia/BUND 10 anni - da ilsole24ore.com (rielaborato)


  

Ma quella di Confindustria non è la sola previsione economica andata a vuoto: l’ex premier Matteo Renzi dichiarò il 14 novembre scorso che lo spread sarebbe stato destinato a salire, soprattutto in caso di vittoria del No. Sembrerebbe tuttavia non facile individuare una correlazione netta tra la vittoria del No (linea rossa, nel grafico in alto) e l’aumento dello spread, il quale sembra invece subire più le vicende internazionali: l’insediamento di Donald Trump (linea azzurra) e l’inizio della campagna di Marine Le Pen in Francia (linea verde).

  

Le promesse mancate del No

 

Le promesse mancate del No sono forse quelle che più hanno ricevuto attenzione dopo il 4 dicembre: come dimenticare la promessa d’agosto di Massimo D’Alema, per una nuova “riforma di tre articoli” che avrebbe potuto vedere la luce entro sei mesi. Il Foglio ne ha riportato il countdown per settimane: ad oggi mancano solo due mesi. Ce la farà il Baffino della politica italiana? Ci sono tutte le condizioni per dubitarne.

 

  

Cosa ci siamo persi (o potevamo risparmiarci) 

 

Ma il piatto più succulento è la verifica di cosa avremmo potuto risparmiarci, o al contrario cosa ci siamo persi, nel caso in cui la riforma fosse stata approvata.

 

Di certo, ci saremmo evitati il ricorso alla Corte costituzionale da parte della Regione Puglia contro la costruzione del Tap (Trans-Adriatic Pipeline). L’opera da giorni occupa le pagine di cronaca per alcune centinaia di manifestanti che protestano contro lo spostamento temporaneo di 211 alberi di ulivo, necessario per la costruzione dell’infrastruttura. Il nuovo articolo 117 della Costituzione avrebbe assegnato al governo le deleghe alla “produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia” e alle “infrastrutture strategiche”. D’altra parte il ricorso di Michele Emiliano sembra contradditorio, dal momento che le autorizzazioni rilasciate alla società costruttrice Trans Adriatic Pipeline per l’espianto degli ulivi sono state rilasciate da due enti regionali: il Servizio provinciale Agricoltura di Lecce e l’Osservatorio fitosanitario regionale

  

Ci saremmo potuti evitare anche l’”House of Cnel”, raccontata da David Allegranti in alcuni articoli: serie tv tutta italiana che racconta la guerra a colpi di carte bollate tra Delio Napoleone, presidente facente funzione del Cnel, e Franco Massi, segretario generale dell’ente che sarebbe stato cancellato dalla riforma costituzionale. Uno scontro arrivato fino al licenziamento di Massi per mano di Napoleone: una vera e propria damnatio memoriae, con conseguente disattivazione del badge e cancellazione del profilo dal sito internet. L’ultima puntata ha visto il collegio dei revisori annullare l’atto del presidente, tornando perciò al punto di partenza.

 

Che altro? Con un Sì ci saremmo persi le lamentele affidate a Twitter di Luigi Di Maio per la mancata abolizione delle province. E’ un punto da sempre caro al Movimento 5 stelle, ma quasi dimenticato durante la campagna referendaria per la conferma di una riforma costituzionale che ne prevedeva la soppressione definitiva.

 

Non avesse vinto il No, avremmo tolto pane dai denti di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. I due giornalisti, in occasione dei dieci anni dalla pubblicazione de “La Casta” (ricordato di recente anche nello speciale del Foglio con Francesco Cundari) e solo a poco più di tre mesi dal referendum confermativo, sono nuovamente tornati a occuparsi sul Corriere di consiglieri regionali e dei loro super-stipendi. La riforma – tra le sue numerose modifiche – avrebbe tagliato per quasi la metà gli stipendi dei consiglieri regionali, e con loro assestato un duro colpo alla fortuna editoriale dei primi paladini dell’anti-casta.

 

Anche quanto accaduto alla società tedesca di trasporto Flixbus può insegnarci qualcosa dell’Italia post 4 dicembre. Il 15 febbraio è approvato in commissione Affari costituzionali del Senato un emendamento apparentemente innocuo al decreto Milleproroghe, a firma di quattro senatori pugliesi del gruppo Conservatori e riformisti di Fitto. Si scopre ben presto tuttavia che il testo approvato limita l’accesso alle licenze per effettuare trasporto interregionale di passeggeri a quelle aziende la cui attività principale è il “trasporto di passeggeri su strada”, mettendo fuori legge Flixbus che non esegue personalmente il trasporto ma organizza i viaggi commissionandoli a piccole-medie aziende italiane. Un sistema che riesce ad attivare benefiche economie di scala, gestito da un software a cui gli utenti possono accedere tramite app dal proprio smartphone. Una novità evidentemente non apprezzata da un’azienda di trasporti pugliese che, infastidita dalla inaspettata concorrenza sui prezzi, è riuscita nella sua azione di lobbying parlamentare a mettere al tappeto il nuovo concorrente. Ok, ma che c’azzecca questo con la riforma costituzionale? C’entra eccome, perché è un ottimo esempio – ahinoi – delle distorsioni del bicameralismo paritario: un sistema che induce l’esecutivo a procedere nell’azione legislativa tramite decretazione d’urgenza, per essere certo di portare a casa i risultati al massimo entro 60 giorni. Decreti che sono treni da non lasciarsi sfuggire per i parlamentari, che tentano in ogni modo di salirvi facendo approvare i propri emendamenti – pure se completamente fuori contesto e surrettizi – come quello anti-Flixbus. Emendamenti che raramente riescono a essere cancellati e corretti: il decreto ha una data di scadenza e deve correre, mentre la correzione richiederebbe un nuovo passaggio parlamentare. Le leggi dunque sono approvate anche se sbagliate – d’altronde meglio una legge imperfetta, che nessuna legge – e al governo è successivamente chiesto di intervenire tramite ordini del giorno e mozioni parlamentari. Ecco quindi l’origine della stratificazione di leggi, regolamenti e circolari – spesso in contrasto fra loro – che mette in pericolo la certezza dell’ordinamento giuridico italiano. Flixbus da febbraio ha bloccato ogni nuovo investimento nel nostro paese ed è ancora in attesa di conoscere la sua sorte e quella dei suoi dipendenti e dell’indotto. Nel frattempo non ci resta che affidarci alle petizioni online.

 

Lo stesso Italicum avrebbe avuto maggiori possibilità di salvarsi – se non interamente, almeno in parte –davanti alla Corte Costituzionale, con il Sì al referendum. La Corte ha infatti sottolineato nella sentenza numero 151 del 2017 di non poter “esimersi dal sottolineare che l’esito del referendum […] del 4 dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale basato sulla parità di posizione e funzioni delle due Camere elettive. In tale contesto, la Costituzione […] esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee". Un messaggio chiaro: non è possibile un secondo turno con ballottaggio alla Camera – dichiarato illegittimo dalla Corte anche per altre ragioni – e un turno unico al Senato. Certo, alcuni non resteranno soddisfatti del ritorno al proporzionale e del fallimento del “combinato disposto”: forse anche chi, di fronte al Patto del Nazareno, affermò che “è sparita la dialettica tra maggioranza e opposizione” e auspicò il governo dell’alternanza e l’addio ai grandi inciuci e al consociativismo (Travaglio, 2015 a Servizio Pubblico). Ops.

 

Per finire, con il No ci siamo persi una novità che avrebbe potuto valere l’intera riforma. In Germania esiste da 15 anni: un’unica agenzia del lavoro che si occupi di contrasto alla disoccupazione e di politiche attive del lavoro. Oggi in Italia la delega alle politiche attive è in mano alle 20 regioni italiane (21, tenendo conto anche dell’Alto Adige) e i servizi sono frammentati e inefficienti. Una distorsione che la riforma costituzionale avrebbe sanato con il nuovo Titolo V (art. 117): sappiamo come è andata a finire. Come argomentato dal docente di diritto del lavoro Guido Canavesi, il risultato è l’immobilismo, tra le politiche passive (i sussidi) gestite a livello centrale e quelle attive distribuite fra le 21 realtà regionali. Tanto che di fronte a una prima sperimentazione dell’Agenzia per le Politiche attive – nata dal Jobs Act – per 30 mila assegni di ricollocamento, la regione Lombardia ha già minacciato ricorso alla Corte costituzionale. Per i disoccupati forse, che secondo Ipsos hanno votato per il 78 per cento No, #bastavaunSì.