L'Onu si scaglia contro “la tirannia del pil”, ma mostra che i paesi più felici sono quelli più ricchi

Luciano Capone

Nel World Happiness Report si dà importanza a sicurezza sociale, onestà e generosità. Ma come insegna Angus Deaton ciò che conta è il pil pro capite: i soldi

Il motto secondo cui “i soldi non fanno la felicità”, fino a poco fa era un argomento di saggezza (o consolazione) popolare. Ma negli ultimi anni è diventato un tema centrale della riflessione economica e dell’impegno delle istituzioni internazionali. Da qualche anno l’Onu si è fatta promotrice della Giornata mondiale della Felicità, in cui, sotto la sapiente direzione dell’economista della Columbia university, Jeffrey sachs, pubblica il World happiness report: un indice che misura il livello di felicità del mondo. L’obiettivo è quello di mettere al centro della narrazione della crescita e dello sviluppo globali la persona e il suo benessere, non più una fredda misura da ragionieri come il pil. L’idea è quella alla base di un celebre discorso di Bob Kennedy: “Il pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.

 

La Classifica della Felicità delle Nazioni Unite: al vertice paesi tra i più ricchi al mondo

 

Recentemente, riaggiornando la riflessione kennedyana, la presidente del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) si è scagliata contro “la tirannia del pil”, sostenendo che ciò che conta è la qualità della crescita: “Prestare maggiore attenzione alla felicità dovrebbe essere parte dei nostri sforzi per raggiungere uno sviluppo che sia umano e sostenibile”. E così oltre al freddo pil, che misura il reddito pro capite e quindi la ricchezza materiale, vengono considerati altri fattori come  l’aspettativa di vita, il sostegno sociale, la libertà sociale, la generosità e l’onestà (intesa come assenza di corruzione). Dati questi indici, qual è il risultato della classifica? Al primo posto c’è la Norvegia, al secondo la Danimarca, poi l’Islanda e via di seguito Svizzera, Finlandia, Olanda, Canada, Nuova Zelanda, Australia e Svezia.

  

 I paesi che sono diventati più infelici sono quelli che hanno subìto una crisi economica 

 

Ma cos’hanno in comune tutti questi paesi? A prima vista si direbbe proprio il fatto che sono tra i paesi più ricchi del mondo, tutti con un pil pro capite superiore ai 35 mila dollari l’anno. Le due classifiche, quella del pil e quella della felicità misurata dall’Onu – anche se non coincidono alla perfezione sono comunque parenti. I soldi non danno automaticamente la felicità, ma tutto ciò che a questo mondo serve ad essere felici non è gratis. La controprova al fatto che il benessere personale e la gioia di vivere siano correlati al benessere materiale è dato dal fatto che i paesi che nella classifica della felicità hanno perso più posizioni in classifica sono proprio quelli che hanno vissuto una crisi economica. I loro cittadini hanno visto assottigliarsi redditi e ricchezza: in fondo c’è il Venezuela, poi la Repubblica Centrafricana, la Grecia, l’Ucraina e anche l’Italia.

 

Il dibattito sul rapporto tra felicità e ricchezza e sull’inadeguatezza del pil per misurare il benessere individuale e sociale va avanti più o meno dagli anni 70, da quando l’economista Richard Easterlin elaborò un paradosso, secondo il quale la felicità dipenderebbe poco o nulla dalle variazioni di reddito e ricchezza. In realtà, a smentire il paradosso di Easterlin basterebbe l’evidenza data dal fatto che le persone si spostano dalla campagna alla città ed emigrano dai paesi poveri a quelli ricchi, come la constatazione che tutto ciò che serve per essere felici – dalla protezione sociale all’istruzione passando per la sanità – dipende in ultima istanza dai soldi e dal pil prodotto in un paese. Ma anche la riflessione economica, tra le mille difficoltà dovute alla misurazione e alla definizione di “felicità” e “benessere”, sembra essere arrivata alla conclusione che i soldi servono a comprare la felicità, soprattutto quando se ne hanno pochi.

  

  La solida correlazione tra soddisfazione di vita e pil pro capite, secondo A. Deaton (2008)   

 

Ne è convinto il premio Nobel per l’Economia Angus Deaton, uno dei massimi studiosi della povertà, dello sviluppo economico: “La soddisfazione di vita è maggiore nei paesi con un pil pro capite maggiore”, ha scritto in uno studio del 2008. E questa relazione è vera per i paesi pèiù poveri “dove i guadagni di reddito sono associati a  maggiori incrementi di soddisfazione di vita, ma rimane positivo e sostanziale anche tra i paesi ricchi”. In conclusione: “Non è vero che c’è un certo livello critico di pil pro capite oltre il quale il reddito non ha più effetto sulla soddisfazione di vita”. Più recentemente anche gli economisti Betsey Stevenson e Justin Wolfers sono arrivati a conclusioni simili: ogni dollaro guadagnato in più vale sempre meno rispetto a quello precedente, ma l’effetto sulla felicità è sempre positivo.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali