Roma, quartiere Giuliano-Dalmata: monumento alle vittime delle foibe (Wikimedia) 

La teoria del complotto di Montanari e l'assurdo odio contro le vittime

Maurizio Crippa

Altro che negazionismo: non bisogna proprio parlare di foibe. Siamo alla falsificazione della storia politica e istituzionale italiana

Esattamente una settimana fa, appoggiandosi come nano sulle spalle di giganti allo storico Angelo D’Orsi – che aveva “accusato il presidente Mattarella di  ‘un grave torto alla conoscenza storica’” per aver usato l’espressione “pulizia etnica” – nella sua forsennata battaglia contro il ricordo (Giornata del -) delle Foibe Tomaso Montanari aveva detto che  “le vittime accertate, ad oggi, furono poco più di 800”. Ieri, sul Fatto, in un lampo di resipiscenza (“nessuno nega le Foibe”) ha portato le vittime a cinquemila: specificando però che erano “fascisti, collaborazionisti ma anche innocenti”. Dove quel “ma anche” fa orrore più di qualsiasi negazione. Ovviamente Montanari fa cilecca, l’espressione la usò Giorgio Napolitano, in discorso ufficiale, il 10 febbraio del 2007: “Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una 'pulizia etnica’”.

    
Ma il punto non è questo, di parole. E non è nemmeno che il futuro rettore dell’università per stranieri di Siena, con quel suo “ma anche”, certifica che gli altri avevano fatto bene ad ammazzarli. È che Montanari (ma sono migliaia, quelli che la pensano come lui, l’odio contro gli infoibati è davvero un triste mistero) nega – cioè nega importanza – al fatto che la maggior parte degli infoibati erano semplicemente persone innocenti. Come innocenti, nella stragrandissima maggioranza, erano i 350 mila esuli istriani e giuliano-dalmati che persero tutto. Quelli che non poterono ricevere nemmeno un bicchiere d’acqua a Bologna perché il Pci aveva dato ordine di isolare “i fascisti”. Quelli che furono ammucchiati come ciarpame in luoghi come il quartiere giuliano-dalmata a Roma. Nel silenzio infingardo della politica (democristiana) per coprire la “pulizia etnica” di Tito.

   
Questi sono i fatti. Montanari strilla da giorni di essere sotto attacco fascista. Ma “l’animaccia nera” dei “nuovi fascisti” qui non è a tema: anche perché lui dà di fascista a chiunque osi contraddirlo (sente un “fascismo polifonico”), persino il pacatissimo Aldo Grasso (“una grande campagna di diffamazione che falsifica le cose come al solito, quando si ha a che fare con i fascisti”) che invece, sul Corriere di domenica gli ha messo sotto gli occhi la sua impudente menzogna. Aveva scritto Montanari: “La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica”. Dunque Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente, e poi Napolitano e Sergio Mattarella avrebbero falsificato la storia, secondo Montanari, con il preciso obiettivo “di costruire un’antinarrazione fascista che contrasti e smonti l’epopea antifascista su cui si fonda la Repubblica”. Chiunque può rendersi conto che qui siamo ben oltre il “negazionismo delle foibe”, di cui francamente importa poco: le Foibe sono lì, a testimoniare per sé.

  
Siamo alla falsificazione della storia politica e istituzionale italiana.

  
Dietro questo c’è un odio politico feroce per chiunque la pensi diversamente. Il futuro rettore ovviamente ha attaccato Renzi per aver  visitato nel 2019 le Foibe di Basovizza (“proprio nel giorno dell’eccidio nazista di Sant’Anna di Stazzema”, e qui siamo al delirio complottista). Dimenticando che un anno dopo Mattarella e il presidente sloveno Borut Pahor si tennero per mano in quel luogo, un “gesto storico”. Questa sinistra non ha il problema, come pure afferma, di difendere l’unicità della Shoah – è la stessa sinistra che alle manifestazioni del 25 Aprile fischia la Brigata ebraica – ma quello che il loro ricordo delle Foibe non sia nemmeno detto. Nemmeno dopo 70 anni.

  
Questo, notazione finale, riporta al casus belli che ha generato le esternazioni i Montanari. L’alzata di scudi (forse anche per qualche interesse corporativo) contro la nomina di Andrea De Pasquale, “inopportuna e impropria”, a direttore generale dell’Archivio di stato. De Pasquale ha tutte la carte professionali in regola, come ha pacatamente risposto Franceschini alla montante canea, essendo stato direttore della Biblioteca nazionale di Roma. La sua colpa sarebbe di aver permesso l’acquisizione da parte dello stato di carte di Pino Rauti. Ora, a parte che il rogo delle carte di Rauti viene invocato da chi come Montanari ritiene che tutto ciò che esiste vada conservato così com’è (ma la filologia, evidentemente, non è più una virtù), il punto vero è la volontà è impedire “una parte”, e solo quella, della memoria storica. Aggrappandosi perfino alle esternazioni dell’Anpi guidata da Gianfranco Pagliarulo, pubblicista per il quale le Foibe sono “un film già visto, noioso e stantio”. Montanari, quando gli fa comodo, sventola l’art. 21 della Costituzione (e con ogni evidenza nessuno gli vieta di straparlare) e addirittura il 33, la libertà di scienza e accademia. Il piccolo problema è che lui, e i molti che ragionano come lui, l’articolo 33 lo vieterebbero agli altri. Ma la storia non è un tribunale, anzitutto vuole conoscere.

  
Sulle Foibe il lavoro degli storici è ancora incompiuto. Non è nemmeno il caso di ricordare la complessità di ogni aspetto e vicenda, a partire dai comportamenti degli “italiani” fascisti durante l’occupazione, che non giustificano, ma certo illuminano, il quadro di certe reazioni da “pulizia etnica” successive. Ma che qualcuno, che addirittura si fa scudo dell’art. 33 della Costituzione, voglia impedirne la conoscenza, sostenendo che una legge dello stato ha fatto in modo che “alla fine la versione neofascista è diventata la narrazione ufficiale dello Stato italiano”, è di una gravità assoluta.
 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"