Un dettaglio della copertina del libro L'impero del sogno

Sono sempre i disertori, alla fine, a combattere le battaglie decisive

Edoardo Rialti

Note sparse su "L'impero del sogno" di Vanni Santoni  

All’obiezione che la fantasia costituisca una forma di escapismo, il prof. Tolkien ribatteva che diversa è la fuga del disertore e quella del prigioniero. Vanni Santoni invece si spinge persino oltre, e parteggia anche per il disertore, convinto che forse siano proprio coloro che sembrano aver gettato le armi a combattere le battaglie più decisive. E’ uno dei temi principali del suo L’impero del sogno (Mondadori), che conclude a mo’ di prequel i suoi fantasy puri e al tempo stesso prende le mosse dalle sue narrazioni-saggi dedicate a sottoculture come il rave e i giochi di ruolo. Federico Melani, studente universitario dagli infimi risultati, passa le giornate a dormire. Letteralmente. Ossessionato e incalzato da un sogno che prosegue e si sviluppa, nel quale, in un consesso fantastico e grottesco, che fonde mitologie e ricordi infantili, gli viene impensabilmente affidata una neonata prodigiosa. E quella sconvolgente consegna pare irrompere nel mondo reale, trasformandolo nel goffo san Giuseppe di una piccola Messia, alla ricerca di indizi, armi e alleati che lo aiutino a proteggerla da nemici dichiarati e altri meno ovvi e quindi davvero pericolosi. Inizia così un on the road tra divinità etrusche che parlano in aretino e le armature del Museo Stibbert che si animano.

  

Provare anche solo a elencare l’importanza e la diffusione del viaggiatore onirico nella letteratura sarebbe semplicemente risibile: da Omero a Kafka, da Lovecraft a san Giovanni, il sogno come modalità conoscitiva è da sempre una delle poche grandi esperienze collettive e al tempo stesso dolorosamente solitarie, vera e propria sub-cultura sui generis, perché nel rammentarlo non contano solo i dettagli narrativi ma l’intensità, forse incomunicabile, di vita vissuta che vi riecheggia. “Dove sei, demente?”, chiede al protagonista uno stizzito sms familiare. Dove sei, davvero, cosa fai? Stai semplicemente poltrendo, evitando responsabilità e fatiche, oppure contribuisci in modo impensabile a un’impresa eroica? Già Cervantes ci aveva sfidato a chiederci se è pazzo Don Chisciotte che vede il mondo ancora come un grande poema eroico, o non siamo tristi e meschini noi che scorgiamo solo mulini a vento e taverniere. Il romanzo di Santoni, che è anche uno splendido sabba di citazioni, da Propp ai videogiochi, da Gaiman, ovviamente, al dr Freud, fa ridere e commuovere per questo. L’ambiguità ironica resta, fino all’ultimo, ma siamo strappati alla rigida catena della necessità e dell’efficienza, e possiamo domandarci se non ci sia un altro modo di leggere gli eventi, e noi stessi. Anche il tributo a Giulio Regeni si inserisce in questa dinamica, in modo sorprendente. Se già La Stanza profonda di Santoni riesponeva il lettore a una dinamica ben nota a chiunque ami il fantastico, e cioè che è proprio lo straordinario a dare valore all’ordinario, qui avviene il movimento opposto, e parimenti importante: non è solo “l’altro” mondo – qualsiasi altro – che salva questa nostra terra dei viventi. Anche questo mondo quotidiano e ordinario, quello delle nostre letture, amicizie, posti preferiti è disseminato di oggetti, luoghi, volti, carichi di significato. E forse proprio tra le pagine dei fumetti che abbiamo lasciato in soffitta ci aspetta qualcosa capace di aiutarci e sostenerci nel prenderci cura di qualunque missione. Una responsabilità che sentiamo davvero nostra, per quanto possa risultare incomprensibile ai più. Da mille dettagli diversi, ci sorride ancora un volto che li comprende e li supera. E quella bambina che – forse? – vediamo solo noi, “non è neppure di quelle che frignano”.

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