L'anno rosso

Adriano Sofri

Ottobre 1917: fu rivoluzione o il colpo di mano che parassitò la vera rivoluzione? I reportage di Ezio Mauro, cronista postumo di quella Storia

E’ venuta l’ora di ripassare la rivoluzione russa: ce l’eravamo dimenticata. Parlo di quelli che l’avevano letta, “studiata” anzi, per imparare come si fa. A turno, dopo il 1917, aspiranti avanguardie di generazioni di tutto il mondo sono passate di lì, come avevano fatto i capi bolscevichi con la rivoluzione francese: e gli operai avevano assaltato il Palazzo d’Inverno cantando la Marsigliese in russo. Perciò bisognava “fare come la Russia”, e squillare il campanello. Quelle letture piegate a un uso militante fornivano anche emozioni durevoli, quasi sempre legate a memorie di sfrattati: Victor Serge, Pil’njak, Babel’, i poeti, e anche Zivago, Bulgakov. Una volta, nel 1969, un giovane operaio meridionale che era diventato un trascinatore alla Fiat Mirafiori mi confidò, quasi vergognandosene, di non aver mai letto un libro. Da dove doveva cominciare? Gli diedi la Storia della rivoluzione russa di Trotsky, benché contasse molte centinaia di pagine, non importa che tu lo legga tutto, gli dissi, fa’ una prova. Lo lesse tutto, e man mano che andava avanti mi sentivo come chi abituato a pranzo cena e colazione tutti i giorni assista al pasto improvviso di un affamato.

 

La violenza è connaturata alla rivoluzione bolscevica, alla spietatezza che esige dall'uomo nuovo per vincere l'uomo vecchio

Essendo stati estremisti, non avemmo bisogno di un tempo così smodato per certificare l’esaurimento della spinta propulsiva. Cambiammo vita e letture e lasciammo, come si dice, che la parola passasse agli storici. Anche Putin ha detto che il centenario va lasciato agli “esperti”. Gli storici hanno fatto il loro lavoro, così indisturbati che non ci si prendeva più la briga di leggerli, se non per circostanze estemporanee, o per amicizia: Graziosi, Flores, Cinnella… Dopotutto, avevamo letto per intero il Carr, ed era già storia. Si lesse Solgenitsin, in ritardo, ma avevamo un’attenuante: avevamo detestato Stalin. Poi Ezio Mauro ha cominciato a tirare fuori i suoi reportage dalla Russia del 1917.

 

Non è una battuta, e del resto sta già nel titolo: Cronache di una rivoluzione: “Bisognava attraversare il 2017 raccontando il 1917 mese per mese, con un reportage che tenesse il filo generale ma seguisse un personaggio nel tumulto del momento”. E’ il rovesciamento della prospettiva per cui “la parola passa agli storici”. Come se, a cent’anni di distanza – una distanza di sicurezza, ammesso che possa esistere – sia venuto il tempo di ripassare la parola ai cronisti. “Ho provato a fare il cronista dei fatti di cento anni fa”. Mauro ha modi singolari, non sapreste se parli come un libro stampato o stampi le cose come ne parla. Conosce la magia dei luoghi. Si formò alla cronaca nera di una città come Torino, fatta apposta a riferire la superstizione anatomica e occultista nell’assassinio di Rasputin: “Guardarono il vero padrone di Pietrogrado che agonizzava, spensero la luce e chiusero la porta a chiave. Ma poi il principe scese di nuovo, tastò il polso al monaco e con orrore vide aprirsi l’occhio sinistro, quindi il destro, fissi su di lui. Improvvisamente Rasputin balzò in piedi con la bava alla bocca cercando di afferrare il suo assassino per la gola, fino a quando strappò una spallina dalla giacca del principe, cadde a terra, si trascinò carponi sulla scala a chiocciola rantolando. Feliks gridò chiedendo aiuto, Puriskevic esplose i primi due colpi fallendolo, poi due proiettili centrarono lo starets. Rasputin era ancora vivo, allora il principe lo colpì più volte con uno sfollagente pesante…”.

 

Così lo raccontarono i testimoni, così lo racconta il cronista, che il secolo trascorso esonera dalla pedanteria delle prese di distanza. La cronaca, quando si permette di venire molto dopo la storia, ha licenze invidiabili – e invidiate. E’ il cronista di un’epopea, e l’epica sceglie un eroe alla volta, e non importa se nel capitolo successivo l’eroe diventa una comparsa o addirittura un vile. Il ritorno nei luoghi non serve necessariamente a trovare tracce trascurate – vi si vollero cancellare a priori gli indizi su cui avrebbe potuto lavorare la scientifica o un cronista di nera – né a figurarsi meglio quello che vi si consumò. E’ un pellegrinaggio nel presente, coi turisti che si fanno la fotografia nel punto in cui l’Asia diventa Europa e viceversa, e hanno ragione, è il punto in cui la Russia di sempre balla sulla corda. Se la guida informasse che lì accanto c’è la fossa comune della famiglia dello zar, si farebbero la fotografia anche lì. Ma a volte il pellegrinaggio diventa un incontro:

 

Il Terrore è una scuola, bisogna farsi forza, modellarsi sul Terrore. La compassione è la mediocrità, nemica della rivoluzione

“Poi il cadavere di Rasputin viene trasportato, camuffato nell’imballaggio da pianoforte, nei boschi fuori città. Lo bruciano, disperdendo le ceneri nella neve e nel vento. Ho cercato il posto. Non riuscivo a trovarlo, sul limitare del bosco veniva il buio, interrotto dal bianco delle betulle. Poi è passato un contadino seduto sul bordo di un carro tirato da una coppia di buoi. Si è tolto il cappello, ha fatto tre volte il segno della croce. Lui sapeva, cent’anni dopo”.

 

Un sentimento della fine piuttosto che dell’inizio, la prospettiva rovesciata – come una San Pietroburgo dal fondo della Neva, i marmi che dondolano nel riflesso fino a sprofondare – anche questo è un frutto della cronaca postuma. Pietrogrado “viveva contemporaneamente i bagliori moribondi della Corte imperiale e l’incubazione di un esperimento rivoluzionario che sarebbe durato settant’anni”. Trent’anni ancora, e c’è stato il tempo per ricostruire le chiese e vendere i biglietti per le tombe dei Romanov. “Quando tutto stava per finire e un altro mondo stava per cominciare, i capi rivoluzionari erano in prigione o in esilio, come Lenin a Zurigo e Trotsky a New York” – aveva casa nel Bronx! Arrivano quando la rivoluzione è già avvenuta, nel febbraio, benché Lenin, che aveva chiamato quella del 1905 “la prova generale”, la consideri un preludio. Propone di cambiare nome e chiamarsi partito comunista: “E’ ora di togliersi la camicia sporca per indossarne una nuova e pulita”. Sartoria su misura.

 

Nel novembre del '17 la chiesa russa denuncia il martirio con parole terribili: "Il calice della collera di Dio trabocca su di noi"

“Man mano che gli abiti francesi sparivano dalle vetrine si fece strada il mestiere del perelitsovsik che rivoltava gli abiti usati per nascondere l’usura e guadagnare tempo”. “In fondo, per Lenin anche Kerenskij era poco più di un perelitsovsik, che rivoltava l’abito rabberciato a un ex impero in miseria. Il vero sarto della rivoluzione, nel suo ufficio di quattro metri alla ‘Pravda’, stava già prendendo le misure alla Madre Russia”. “Soltanto il giorno dopo (il 24 febbraio) Nikolaj II saprà della rivolta, derubricata dal telegramma della zarina: Mio preziosissimo amore, ieri ci sono stati dei disordini… dei poveri diavoli hanno assaltato un forno del pane. Contro di loro sono stati chiamati i cosacchi”. Ancora un giorno, e un nuovo telegramma: “Mio caro, scioperi e disordini sono solo provocazioni. Si tratta solo di teppisti, ragazzini e ragazzine che corrono gridando di non avere pane per creare agitazione, e di operai che impediscono ad altri di lavorare”.

 

(Viene da sorridere della zarina Alix, come di tutte le Marie Antoniette, che scambia una rivoluzione per dei ragazzini che corrono gridando. Ma succede che si prendano per rivoluzioni ragazzini e ragazzine che corrono gridando, e senza nemmeno essere regine). Le donne, che si intestano l’inizio della rivoluzione di febbraio, l’8 marzo gregoriano, marciano per il pane, quando la città già si riempie di disertori e i soldati disobbediscono all’ordine di sparare. Il pane e la pace, sono le due parole. Nel centenario torna il dilemma: l’Ottobre è stato la rivoluzione o il colpo di mano che ha storto e parassitato la vera rivoluzione, il Febbraio che aveva abolito la pena di morte e deposto lo zar? Per un po’ il dilemma si incarna nelle figure di Kerenskij e di Lenin, romanzescamente legate dall’infanzia. Kerenskij impersona il dualismo di poteri: del governo provvisorio e del Soviet, e però è solo un tenere il piede in due staffe prima di essere travolto. C’è un punto che li fa davvero antagonisti al bivio, ed è quello della guerra. Kerenskij gioca il proprio prestigio nella sfida a rianimare l’abnegazione bellica, quando già i morti si contano a milioni. Scatena l’offensiva di primavera: “La patria è in pericolo, tutti i soldati devono tornare al loro posto”. Lenin vincerà, nonostante l’isolamento dei 19 anni trascorsi fuori dalla Russia, perché ha assunto dall’inizio una posizione temeraria sulla guerra. Altri, troppi, hanno ceduto al richiamo patriottico e rinnegato l’internazionalismo. Altri, pochi, hanno resistito alla tempesta nazionalista e votato contro i crediti di guerra, come Karl Liebchneckt in Germania. Uno, settario, inesorabilmente lucido, il napoletano Amadeo Bordiga, che sarà il fondatore del Partito Comunista, denuncia la guerra imperialista ma vi vede la catastrofe dell’ideale socialista: si potrà solo custodire la bandiera finché non sia passata la nottata. Al contrario, Lenin prende sul serio lo slogan di “trasformare la guerra degli stati in guerra civile”: vi riconosce l’occasione. La guerra che arma i proletari gli uni contro gli altri permetterà loro di unirsi e puntare le armi contro i padroni e gli ufficiali. Che potesse succedere davvero, e per di più in Russia, era difficile da prevedere. Ma quando successe, Lenin – e con lui Trotsky – era pronto. Lenin arriva finalmente, scrive Mauro, insieme alla “notizia dello sfondamento tedesco a Stokhod, con venticinquemila prigionieri russi e la cattura di un gran numero di pezzi d’artiglieria”. In agosto il generale Kornilov inscena il suo effimero colpo controrivoluzionario: “Disertori in massa, con il comandante della Undicesima Armata che ordina di aprire il fuoco su chi lascia le trincee”. E’ la chiave di volta dell’eccezione marxista della rivoluzione russa, la “rivoluzione contro il capitale” di un magnifico articolo idealista del giovane Gramsci. Il febbraio è stato contraddetto nella sua radice dall’azzardo della galvanizzazione della guerra in un esercito e un popolo estenuati. L’ottobre è la condanna strenua della guerra in nome della guerra civile. Comincerà davvero, la guerra civile, quando la guerra degli stati sarà stata ripudiata a Brest-Litovsk. La Prima guerra è la levatrice (chirurgica) della rivoluzione bolscevica, la Seconda sarà, da Stalingrado fino a Berlino, la causa della sua tenuta nonostante terrori e orrori, e della sua attrazione.

 

Ci sono poi i poeti à la Alexandr Blok, che aveva vissuto il Febbraio come uno scontro tra due treni in piena notte

La guerra civile è anche una palestra di violenza. La violenza non è solo imposta, dall’assedio esterno, dai nemici interni. E’ connaturata alla rivoluzione bolscevica, alla spietatezza che esige dall’uomo nuovo per vincere l’uomo vecchio fuori e dentro di sé. Non è il sacrificio che la rivoluzione deve alle circostanze, è la sua rivelazione. Ombra lunga: indurirsi senza perdere la propria tenerezza. I bolscevichi rimettono in auge la pena di morte e la morte senza pena. Il Terrore è una scuola, bisogna farsi forza, modellarsi sul Terrore. La compassione è la mediocrità, nemica della rivoluzione. La guerra civile è il bene contrapposto al male che è la guerra fra gli stati. La rivoluzione è intimamente innestata sul tronco della guerra. Rende lecito e anzi santo ciò che nella guerra è maledetto. E la violenza seleziona i suoi alunni: non sceglie chi conserva la sua tenerezza, sceglie chi si sa indurire.

 

Sta nel punto della guerra civile l’attualità della rilettura. Oggi “la guerra” incombe e intanto “le guerre” si moltiplicano, locali ma accanitamente internazionali, e quasi sempre “guerre civili”. Non ce n’è una che somigli al paradigma della guerra di classe, di sfruttati finalmente uniti contro sfruttatori. Ecco una “guerra civile” contemporanea: la Siria di sei anni e seicentomila morti e dodici milioni di profughi. In cambio, pittoresche attualità. Mauro: “Il Comitato centrale e Lenin avevano trovato sede proprio nella palazzina bianca che Nikolaj II da giovane ufficiale aveva regalato alla ballerina Matil’da Ksesinskaja, e dove bussava la sera presentandosi come il ‘conte Volkov’.” Un film sull’affaire è al centro della scena russa, attentati, manifestazioni, contro l’oltraggio alla memoria santa del povero Nicola II. La ballerina ballava bene, pare, ebbe oltre al futuro Zar due granduchi e morì centenaria a Parigi. Forse ci saranno dei morti per questo, in Russia. Anche questo si spiega. “Nei primi anni saranno fucilati ventimila sacerdoti e parrocchiani”. Nel novembre del ’17 la chiesa russa denuncia il martirio con parole terribili: “Il calice della collera di Dio trabocca su di noi”. Parole che cedono alle altre, bellissime, che Mauro cita altrove, di Vasilij Rozanov ne L’Apocalisse del nostro tempo: “L’impero si è letteralmente disintegrato un giorno feriale, un mercoledì qualunque. Dio ha sputato e ha spento la candela ”.

  

Ci sono i poeti, nella rivoluzione russa, e fra loro Alexandr Blok, che “aveva vissuto il Febbraio come uno scontro tra due treni in piena notte”. Blok è incaricato di interrogare i nemici della rivoluzione incarcerati e presto si ritrae: “Non si può giudicare nessuno. L’uomo nell’ora del dolore diventa un fanciullo”. La prescrizione ha tempi lunghissimi per chi non è poeta, ma cent’anni bastano. Anche se la pratica risulti insieme meschina e paradossale: una statua di Nicola II innalzata in una Piazza Lenin.

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