Napoleone e la ritirata di Russia

Caporetto francese

Francesco Maselli

Nel novembre 1812 la Grande Armée di Napoleone si ritira dalla Russia, sconfitta. E sulla Beresina sfiora il disastro

Il 14 settembre 1812 Napoleone Bonaparte entra vittorioso a Mosca dopo poche settimane di campagna. I russi, che continuano la loro tattica di terra bruciata e cercano in tutti i modi di evitare lo scontro armato con i francesi, l’hanno abbandonata il giorno prima. Bonaparte è convinto che lo zar Alessandro I si presenterà a breve per trattare le condizioni della resa, com’era costume all’epoca dopo la caduta della capitale. Ma Alessandro non intende arrendersi, sa che l’inverno è alle porte e che i francesi sono stanchi e con pochi approvvigionamenti. Il pomeriggio del 14 settembre, mentre il nemico è impegnato a entrare in città, dà quindi ordine di dare alle fiamme più edifici possibile. All’epoca composta in gran parte da case di legno, Mosca brucia fino al 20 settembre senza che i francesi riescano a domare il fuoco. La Grande Armée, già privata del cibo, è privata anche dei ripari: Mosca è ridotta in cenere. Dopo più di un mese di incontri con sottufficiali russi, che non vogliono davvero arrendersi ma soltanto prendere tempo in attesa dell’inverno, i francesi capiscono di non poter più restare in città.

 

Il vento glaciale rende inutili persino i bivacchi. Molti soldati si avvicinano talmente tanto ai bracieri da morire bruciati

Il 18 ottobre Bonaparte dà l’ordine di ritirarsi. I francesi, consapevoli che l’inverno li avrebbe decimati, provano a puntare verso sud, per ritardare l’arrivo di temperature proibitive, ma l’esercito russo, con continue incursioni e piccoli scontri, li costringe a ripetere la stessa strada dell’andata, in campi e villaggi già devastati dal passaggio dell’esercito. Le condizioni della marcia sono durissime, le temperature scendono oltre i 25 gradi sotto lo zero, la disidratazione, la stanchezza e il vento glaciale rendono inutili persino i bivacchi. Molti soldati si avvicinano talmente tanto ai bracieri da morire bruciati. Scrive il capitano François Bourgogne nelle sue memorie: “Chi non aveva né coltello, né sciabola, né ascia e aveva le mani congelate non poteva mangiare [...] ho visto soldati in ginocchio addentare i cadaveri degli animali come dei lupi affamati”. Lo storico Jacques Olivier Boudon si sofferma sulle “trasformazioni di un esercito presentato come vettore di civilizzazione e trasformato in un luogo di disumanizzazione”. Molti soldati hanno uniformi troppo leggere: per evitare che i vestiti degli altri si congelino, alcuni si avventano su chi cade a terra stremato e lo spogliano mentre è in delirio ma ancora vivo. “Nevicava”, scrive Victor Hugo ne L’Espiazione, uno dei suoi più famosi poemi, ispirato alla lunga marcia, “vinti dalla sua conquista, per la prima volta l’aquila abbassava la testa. Triste giorno! L’imperatore tornava indietro lentamente, lasciando dietro di sé bruciare Mosca fumante. Nevicava. L’aspro inverno si fondeva in valanga, dopo una pianura bianca un’altra pianura bianca. Non conoscevamo più capi né bandiere, ieri Grande Armée e adesso truppa. Nevicava, nevicava sempre! Il cielo tesseva senza rumore, con la nebbia fitta, per questo immenso esercito un immenso sudario”.

 

Intanto i russi continuano a seguire la Grande Armée su tre lati, da nord i francesi subiscono gli attacchi dei cosacchi del generale Wittgenstein, da est del generale Kutuzov. Scaramucce e piccoli assalti che si aggiungono alle condizioni disperate della ritirata. Il generale ČCicagov si trova invece più a ovest: aspetta Napoleone sulla Beresina, un fiume che taglia la Bielorussia da nord a sud per 600 chilometri. Cicagov si accampa con i suoi 30 mila uomini e 100 cannoni sulla riva sinistra, di fronte al villaggio di Borisov, in modo da controllare l’unico ponte nel raggio di centinaia di chilometri. L’imperatore, entrato in Russia con quasi 700 mila soldati, dei quali 300 mila francesi, si avvicina alla Beresina con non più di 50 mila uomini, non tutti in grado di combattere. Il comandante Genestas, personaggio inventato da Honoré de Balzac, racconta cos’era diventata la Grande Armée: “Era durante la ritirata di Mosca. Assomigliavamo più a un gregge di buoi logorati che alla Grande Armée. Addio la disciplina e le bandiere. Ognuno era responsabile di se stesso”. Il fiume va attraversato: per aggirarlo i francesi dovrebbero marciare verso nord per settimane, con il rischio di trovare la strada sbarrata da Wittgenstein e ancor di più dal generale inverno, vero responsabile delle sofferenze francesi.

 

Una vittoria, ma un disastro. In Russia Napoleone perde 250 mila uomini, un quarto delle perdite di tutte le sue campagne

Il 24 novembre il maresciallo Oudinot è inviato con l’avanguardia a conquistare la città di Borisov, sulla riva destra del fiume, che cade senza opporre resistenza. Il ponte, però, non c’è più: Čicagov lo ha incendiato e si è acquartierato sulla riva opposta. Il maresciallo ordina quindi di trovare un altro passaggio, e invia delle pattuglie in avanscoperta. Una di queste ha un colpo di fortuna: sulla strada che costeggia la Beresina incontra un contadino bagnato fino al busto, esiste dunque un modo per guadare il fiume senza la necessità di un ponte. Il guado si trova a Studianka, appena a 13 chilometri a nord di Borisov, circa due ore e mezza di marcia. In quel punto il fiume è largo meno di venti metri e profondo circa due.

 

Bonaparte, incalzato da est e da nord, deve attraversare il fiume velocemente per non essere accerchiato; la sera del 25 novembre organizza quindi una manovra diversiva: chiede alla sua avanguardia di fare finta di ricostruire il ponte di Borisov per distrarre ČCicagov sulla riva opposta, e allo stesso tempo invia i generali Oudinot e Mouton, discretamente, a Studianka, a costruire due ponti, uno per l’artiglieria e l’altro per la fanteria. Nel frattempo tutto l’esercito, rimasto accampato a Borisov, li raggiungerà lentamente e a piccoli gruppi. Della costruzione del ponte è incaricato il generale Eblé che si avvale di 400 pontieri olandesi. Un lavoro in condizioni proibitive. Il fiume è gelido, ma non completamente ghiacciato: enormi blocchi di ghiaccio si muovono lungo il suo corso, rendendo pericolosissimo montare i piloni a metà del guado. Scrive il granatiere Pils nel suo diario di marcia: “I pontieri entrarono nell’acqua ghiacciata con un coraggio senza eguali nella storia. Qualcuno cadde stremato e sparì portato via dalla corrente senza che lo spettacolo di questa fine tragica togliesse l’energia ai suoi compagni. L’imperatore guardò questi eroi e non lasciò la riva attendendo con il maresciallo Ney, il principe Murat e gli altri generali, mentre il principe di Neuchatel, seduto tra la neve, spediva la corrispondenza e preparava gli ordini per l’esercito”. Durante la giornata il tempo peggiora: il vento è talmente forte che a tratti impedisce di accendere bivacchi, la neve non cessa di cadere “così fitta che la luce del giorno era oscurata”, racconta ancora Pils.

 

"Il ponte, costruito per l'artiglieria, si distrusse per il peso dei cannoni in un momento in cui molti uomini lo stavano attraversando"

Verso le 13 della mattina del 26 novembre il primo ponte è pronto ed è subito attraversato da 10 mila uomini comandati da Oudinot; alle 16 è terminato il secondo ponte, così l’artiglieria e le salmerie iniziano ad attraversarlo. Il ponte è però stretto, improvvisato, vacilla, in molti perdono l’equilibrio. Il sergente François Bourgogne racconta la scena nelle sue memorie: “Il ponte era pieno di morti e moribondi che impedivano agli altri di attraversarlo. Afferravano loro le gambe, facendogli perdere l’equilibrio, trascinandoli sul fondo della Beresina; ricomparivano poi tra i blocchi di ghiaccio che galleggiavano e scomparivano per far posto ad altri”. I francesi continuano lentamente ad attraversare il fiume per tutta la giornata del 26. Il giorno dopo però, il ponte dell’artiglieria cede trascinando con sé nell’acqua gelida centinaia di uomini. Scrive Bourgogne: “Verso le dieci il secondo ponte, costruito per la cavalleria e l’artiglieria, si distrusse sotto il peso dei cannoni in un momento in cui molti uomini lo stavano attraversando. E allora il disordine fu ancora più grande, perché tutti si gettarono sull’altro ponte, dove però non c’era più spazio per passare. Il disordine raddoppiò: uomini, cavalli, carrozze, civili con le loro donne e i loro bambini, tutto era confuso e distrutto”. Il generale Eblé deve dunque ripararlo, e per dare l’esempio si getta per primo nel fiume. Alcuni pontieri olandesi, stremati, sono trascinati via dalla corrente, altri vengono travolti dai blocchi di ghiaccio. Alla fine il passaggio è di nuovo utilizzabile, e i francesi continuano ad attraversarlo per tutta la giornata. Gli ordini dell’imperatore sono chiari: le truppe armate e in buone condizioni hanno la precedenza, gli altri dovranno attendere. Sulla riva destra del fiume si forma quindi un’enorme massa di “trainard”, ritardatari, soldati sbandati e la moltitudine di civili che accompagna un esercito: mogli, figli, prostitute, piccoli commercianti.

 

La sera del 27 Čicagov vede che il villaggio di Borisov è lentamente abbandonato e si rende conto del suo errore. Prepara quindi un’offensiva per l’alba del 28. Sulla riva sinistra del fiume si scontra con i 10 mila uomini di Oudinot, che avevano attraversato il fiume il giorno prima. Poche ore più tardi, sull’altra riva, è Wittgenstein con i suoi 40 mila uomini che attacca battaglia con la retroguardia del maresciallo Victor, che ha a disposizione soltanto 10 mila uomini per proteggere il passaggio del fiume. Victor resiste per tutta la giornata anche grazie al supporto degli 800 cavalleggeri di Fournier, che caricano a più riprese la fanteria e la cavalleria russa, molto superiore per numero. Al suono dei cannoni e dei fucili il panico si impadronisce dei trainard e dei civili, che si precipitano verso il ponte e cercano di attraversarlo. Il barone di Larray, chirurgo della Grande Armée, ricorda: “Lo spavento aveva preso possesso di tutti. Il più forte abbatteva il più debole che era scaraventato tra i piedi della moltitudine. Non si sentivano altro che urla e gemiti. Qualcuno riuscì ad attraversare il fiume a nuoto, qualcun altro annegò, altri ancora si trovarono incastrati tra ghiaccio e detriti”. La calma ritorna con il calare della sera. A quel punto anche il maresciallo Victor attraversa il ponte. La sera del 28 Bonaparte, constatato che il grosso dell’esercito in grado di combattere aveva attraversato il fiume, dà l’ordine di bruciare i due ponti la mattina dopo per impedire ai russi di inseguirlo. Eblé è inviato durante la notte ad avvertire i ritardatari di muoversi subito, perché presto non sarà più possibile. Il generale decide di incendiare quante più carrozze possibile per segnalare l’urgenza, ma i suoi richiami vengono ignorati: in molti preferiscono dormire accanto ai fuochi e attraversare la Beresina l’indomani. All’alba, Eblé attraversa per ultimo, ed esegue l’ordine. I due ponti sono dati alle fiamme. Ai primi fuochi i trainard accorrono, ed è il caos: più di diecimila persone cercano di attraversare un ponte in fiamme. Impossibile avanzare, impossibile tornare indietro. Muoiono quasi tutti, chi sopravvive cade prigioniero dei cosacchi.

  

"Durante la ritirata di Mosca, assomigliavamo più a un gregge che alla Grande Armée. Addio la disciplina e le bandiere

L’esercito ha però attraversato il fiume, Oudinot ha respinto Čicagov, i francesi possono continuare la ritirata senza che i russi possano più inseguirli. Una vittoria dunque. Una brillante vittoria. Ma un disastro. In Russia Napoleone perde 250 mila uomini, un quarto delle perdite di tutte le sue campagne. La maggior parte delle perdite si concentra nelle settimane della ritirata, e le scene raccapriccianti del guado della Beresina assumono un valore simbolico che racchiude tutta la terribile campagna: “Mai la mia penna potrà descrivere l’orrore di quella situazione”, scrive il granatiere Pils. L’imperatore, dopo la battaglia, preoccupato della situazione a Parigi, decide di lasciare l’esercito e tornare accompagnato dal maresciallo Caulaincourt. Da allora la Beresina è diventata sinonimo di disfatta, disastro, un’espressione comune della lingua. “C’est une Bérézina”, la Caporetto francese.

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