Paradosso: più sport vuol dire più Nobel. Lezioni americane alle università italiane

Giovanni Battistuzzi

Se il 49 per cento dei premi Nobel sono usciti dagli atenei statunitensi non è solo una questione di qualità della ricerca. Ma anche di football. Ecco perché

Si mettano da parte piani di studio, progetti di riforme universitarie, modelli di selezione dei professori accademici. Non servono. O meglio non bastano. Per rendere eccellenti le università italiane, serve altro: l’istituzionalizzazione dello sport, farlo diventare centrale all’interno degli atenei.

 

Quello che sembra un paradosso, puntare sul potenziamento del fisico invece che delle capacità cognitive, sull’attività ludico-agonistica, piuttosto che sul curriculum formativo, in realtà non lo è. O meglio, le due cose vanno di pari passo e portano allo stesso risultato: più fondi per la ricerca.

 

Se infatti il 49 per cento dei premi Nobel sono usciti dalle università americane e se queste, secondo la classifica della Jiao Tong University di Shanghai, occupano trentadue dei primi cinquanta posti (e sedici dei primi venti) dei migliori istituti un motivo c’è e questo non è solo la bontà della ricerca fatta. Perché oltre alle idee, oltre agli studi servono i soldi. E per trovarli nulla è meglio dello sport.

 

Se si prende in considerazione il sistema universitario americano infatti si può notare come esista un doppio binario di istruzione anche all’interno dello stessa università: da un lato l’alta ricerca, dall’altro lo sport. Ci sono studenti che si formano per essere preparati a occupare posizioni importanti, altri per portare le squadre universitarie a grandi traguardi. L’alto e il basso, l’intellettuale e lo sportivo servono a uno stesso scopo: generare soldi.

  

David F. Labaree è professore a Stanford, ha sempre fatto parte del primo gruppo degli universitari americani, i secchioni, ma ha capito che senza il secondo gli atenei americani non avrebbero potuto raggiungere l’eccellenza. Ha scritto “A Perfect Mess: The Unlikely Ascendancy of American Higher Education” e lo ha sintetizzato in un articolo su Quartz. La tesi è un tributo al football, ma anche al basket, al baseball, insomma a tutto quello che “contribuisce a mobilitare un flusso di finanziamenti pubblici e privati alle università”, soprattutto in un periodo nel quale “quelli pubblici sono sempre minori e gli istituti sono sempre più dipendenti da quelli privati”.

 

E’ il mix tra alto e basso, tra serio e faceto, tra elitarismo e populismo a rendere l’alta formazione americana la migliore al mondo: “Anche le università più elitarie non rinunciano a offrire borse di studio a ragazzi che eccellono nello sport invece che negli studi”. Ciò perché lo sport permette agli atenei di “promuovere una fedeltà che supera il naturale corso di studi, che dura tutta la vita” e che nel pratico “si traduce in un'ampia base politica per ottenere finanziamenti statali e un flusso costante di donazioni private”.

 

Anche perché una volta usciti dall’università e raggiunto il successo economico, il senso di appartenenza a qualcosa che non è stato solo studio, spinge il 55 per cento degli ex allievi (secondo una ricerca del Pew Research) a donare agli atenei qualcosa. Anche milioni di dollari.