Rosso, Pontormo, Bronzino e gli altri. Tra "lascivia" e "divozione". A Firenze un cinquecento tutto nuovo

Maurizio Crippa

L’epoca artistica che Vasari battezzò della “maniera”, stendendovi una patina opaca. Una mostra che chiude una bella trilogia espositiva

Chiudete gli occhi ed entrate, come per incantamento, direttamente nella sesta sala. C’è la statua di una Fata Morgana in marmo, ignuda. Una statua che zampillava acqua e abbelliva una fontana. E’ un pezzo pregiato della mostra, è del Giambologna, il fiammingo di Firenze, ora è in una collezione privata. Soprattutto racconta una storia esemplare, una delle molte porte d’accesso a Palazzo Strozzi. Anzi, la storia la raccontano i due curatori, Carlo Falciani e Antonio Natali. Bernardo Vecchietti era un esponente di punta della cultura fiorentina postridentina, collezionista e mecenate, ben addentro alla corte dei Medici. Uomo dotto, uomo pio, e insieme un uomo del suo tempo. Nel parco della sua villa Il Riposo, oggi è nel comune di Bagno a Ripoli, aveva fatto costruire secondo il gusto dell’epoca un luogo ameno, una piccola grotta rinfrescata da una fonte naturale dove sedere con gli amici in raffinati conversari. Per abbellirla, commissionò al Giambologna, uno dei suoi pupilli, la statua mitologica che zampillava acqua. Però poco tempo dopo, proprio lì a fianco, fece costruire anche un tabernacolo, abbellito da un dipinto, Gesù al pozzo con la Samaritana, probabilmente di Santi di Tito, un altro grande artista, tra i suoi preferiti. “Due donne, dunque, e due acque”. La samaritana discorre con Gesù “di un’acqua che disseta ed è per la vita eterna”. La Fata Morgana “è chiamata a offrire un’acqua che disseta per un sollievo terreno”, scrivono Falciani e Natali nel catalogo (Mandragora). “Sacro e profano. Uno accanto all’altro: in un accostamento ardito che si fa immagine veridica della Firenze di allora”. “Lascivia e divozione” è il titolo che per qualche tempo i due avevano pensato di dare alla mostra che ha aperto giovedì 21 a Palazzo Strozzi (fino al 21 gennaio 2018) e che invece si intitola “Cinquecento a Firenze, ‘maniera moderna’ e Controriforma”. “Lascivia e divozione” è un binomio desunto dai testi in voga nel secondo Cinquecento, “due lemmi che s’adattano bene a sintetizzare due realtà, due visioni del mondo e perfino due condizioni dell’animo, differenti e financo antitetiche, che tuttavia convissero, procedendo su vie parallele”.

 

La samaritana discorre con Gesù "di un'acqua per la vita eterna". La Fata Morgana offre un'acqua "per un sollievo terreno"

E’ il secondo Cinquecento fiorentino, l’epoca artistica che Vasari battezzò della “maniera”, stendendovi una patina opaca e sminuente che ancora non ha finito i suoi effetti. Ora una mostra bella, importante, prova a rimuoverla definitivamente, dopo decenni di studi accademici. La mostra prodotta dalla Fondazione Palazzo Strozzi è la fine di un percorso, l’ultima di una trilogia dopo quella dedicata a Bronzino nel 2010 e l’altra su Pontormo e Rosso Fiorentino, la due vie della maniera, nel 2014. Ci sono 41 artisti e oltre 70 opere, si annuncia come uno degli eventi della stagione (Pontormo e Rosso fu premiata con l’Apollo Award come la migliore mostra dell’anno), ma ha l’ambizione di essere qualcosa di più, un percorso di conoscenza. Nell’autunno in cui stiamo per celebrare i 500 anni della Riforma di Lutero – l’evento che spezzò in due la cristianità e l’Europa generando due sensibilità morali, culturali, estetiche diverse – scoprire le opere del cosiddetto manierismo, quelle profane e quelle sacre, spesso opera dei medesimi artisti, è anche un bell’esercizio sull’oggi, per comprendere alcune radici profondissime della cultura e sensibilità italiane. L’arte religiosa del periodo della Controriforma, o meglio Riforma cattolica, inizia molto prima del barocco. In uno dei suoi ultimi libri, “Arte e pietà nella chiesa tridentina”, riprendendo il filo di vecchi studi, il grande storico dell’età moderna Paolo Prodi, che però era bolognese, prendeva in esame il “Discorso intorno alle immagini sacre e profane” di Gabriele Paleotti, cardinale bolognese e discepolo di Carlo Borromeo, pubblicato nel 1582, in cui istruiva gli artisti sul modo in cui avrebbero dovuto rappresentare i soggetti religiosi attenendosi al decreto del Concilio di Trento del 1563. Raccomandava un realismo che fosse aderente al racconto delle Scritture, bandiva le rappresentazioni astratte o mitologizzanti del Cristo, invitava a ispirare nel pubblico autentica pietà e sentimento di preghiera. A Bologna, come a Firenze o a Roma, Prodi rintraccia i segni di una vita religiosa ricca di fermenti intellettuali e spirituali, tutt’altro che torva e “controriformista”. Ma Paleotti era bolognese, e soprattutto arrivava in ritardo, come tutti i manualisti, di qualche decennio. 

 

Chiudete gli occhi e ritornate, diligentemente, alla prima sala (del resto, suggeriscono gli organizzatori, questa non è una mostra usa e getta, varrebbe la pena rivederla più volte). Salite la scala rinascimentale di Palazzo Strozzi, oltrepassate la porta a vetri. Grande, magnetico, di un colore materico e indefinibile, vi si para davanti un capolavoro sconosciuto. E’ il Dio fluviale di Michelangelo. Non è marmo, è il modello in materiali poveri (stoppa, fil di ferro, paglia) di una statua che avrebbe dovuto adornare le tombe medicee nella Sagrestia nuova di San Lorenzo. Il suo destino avrebbe dovuto essere quello dell’autodistruzione, solo un materiale di cantiere, ma è sopravvissuto, caso più unico che raro, ed è stato restaurato in occasione della mostra. Poi tornerà a Casa Buonarroti. Ancora un elemento di mitologia pagana in un contesto religioso. A Falciani, passandogli accanto, vien fatto di chiamarlo “monolite”. Come quello di Kubrick. Immette appunto in un’altra dimensione, che è quella della mostra. La commistione di sacro e profano, mitologia pagana e pietà cristiana. Alle spalle del “monolite” michelangiolesco, con un colpo scenico decisamente impressive, ad aprire la mostra c’è infatti il Compianto su Cristo morto, celebre come la Pietà di Luco di Andrea del Sarto (altro restauro), dipinto nel 1523-24, tre decenni prima del Concilio di Trento. E’ un altro gioco sorprendente di rimandi. C’è un duplice motivo per cui è lì. Il primo, poco noto, è che per tutto il Cinquecento Andrea del Sarto sarà uno dei pittori più imitati a Firenze, nonché maestro di Rosso e Pontormo. Proprio per quel suo stile piano, realista e comunicativo che decenni dopo sarebbe stato indicato dai padri di Trento come la maniera giusta dell’arte religiosa. L’altro motivo – il linguaggio segreto, ma non esoterico – è dentro al quadro. Gesù viene deposto, ma a terra accanto a lui ci sono un calice e una patèna, con sopra l’Ostia eucaristica. Sull’ostia, bianco su bianco, c’è disegnata la sagoma di Gesù in croce. Dietro, a dominare la scena, Pietro e Paolo: ovvero la chiesa cattolica ai suoi massimi apostolici per dare testimonianza e autorità al fatto storico e teologico che Gesù è morto per i peccati di tutti, ma è vivo e presente nella Messa. Messaggio chiaro, teologicamente tetragono ma comprensibile al popolo, nel linguaggio diretto di un’arte commossa, ripulita dai fronzoli e restituita alla sua funzione. Solo che Andrea del Sarto tutto questo lo dipinge nel 1523, Lutero aveva appena (1517) appeso le sue 95 tesi alla porta della chiesa di Wittenberg. La “Riforma cattolica” era di là da venire, ma non dall’essere già in atto, in fieri, anche dentro la sensibilità degli artisti.

 

Il Dio fluviale di Michelangelo è "monolite", come quello di Kubrick. Immette in un'altra dimensione, la conoscenza di qualcosa di nuovo

Pietà e sensibilità moderna, eccoci di nuovo al cuore della mostra. La seconda sala ha una parete di straordinaria bellezza, una serie di opere che, anche solo per l’eccezionale occasione di vederle insieme, vale da sola il viaggio e il biglietto. La Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino arriva da Volterra, a due passi, ma non si era mai mossa da lì. La Deposizione di Pontormo, appena riportata allo splendore dei suoi colori. Sono i due quadri, tra l’altro, che Antonio Natali citò come i suoi preferiti in un’intervista quando nel 2015 lasciò dopo dieci anni la direzione degli Uffizi: ma non abitano agli Uffizi. Un sogno, vederli insieme. Un sogno, del resto, che era già stato di Pasolini, che li aveva trasformati in due tableau vivant nella Ricotta. E poi la terza opera, il Cristo deposto di Besançon di Bronzino, che non tornava nella sua Firenze da cinque secoli. Esiste una riforma prima della Riforma, anche in pittura. Tre modi distanti, e anche antitetici, di incarnare la nuova “divozione”. La drammaticità arcaicizzante, espressionista, di Rosso Fiorentino, che era un repubblicano e forse savonaroliano. Vi si coglie l’eco di una religiosità austera, vicina ai riformatori duri e puri del Frate ma anche delle numerose confraternite che si ribellavano alla religione di pura esteriorità, di puro addobbo politico, della chiesa rinascimentale. I predenti, per come andrà la storia, ma nonostante questo il loro segno ha inciso in profondità nella riforma della chiesa che di lì a poco sarebbe venuta. La luce quasi visionaria di Pontormo, quasi una visione mistica, è l’apparizione di una deposizione di Cristo messa in scena senza croce e senza sepolcro, come se Gesù fosse direttamente portato sull’altare. Un’illustrazione perfetta del dettato cattolico dell’Eucaristia, come piace pensare a Natali. Una riflessione “teologica” che è presente anche dentro la struggente dolcezza, quasi meditativa, di Bronzino che dipinge quasi vent’anni dopo. Poi ci sono le monumentali “pale d’altare della Controriforma”, la Resurrezione di Santi di Tito, un altro dei capolavori a Palazzo Strozzi, il Cristo e l’adultera di Alessandro Allori, l’Immacolata Concezione di Bronzino, il Crocifisso a grandezza naturale di Giambologna nella basilica dell’Annunziata. Immagini che nel Cinquecento fiorentino, ma non solo in quello, avevano una funzione non più solo ornamentale, magniloquente, ma devozionale: aiutavano a pregare. E c’è solo da immaginare, per raffronto, le chiese e le sale di preghiera che nel frattempo si facevano nude, vuote di immagini, del nord Europa investito dal vento della Riforma protestante. Sempre per aiutare a pregare. Ma in modo diverso, più moralistico, senza il “conforto” di vedere davanti a sé “le cose per come erano andate”.

 

Un tratto di intimismo moralista che nella Riforma cattolica convive più naturalmente con il segno esteriore, la carnalità quotidiana. Così ci sono a Palazzo Strozzi, e spesso sono opera degli stessi pittori, nella loro parte di lavoro dedicata al mondo profano, i ritratti ufficiali e privati dei nobili della città. Testimonianze del mood dell’epoca, il sentimento del tempo di una classe dirigente, e il sentimento di sé, dei propri affetti privati e della propria immagine pubblica.

 

Il Concilio di Trento voleva un'arte realistica e teologica e insieme commovente, che muovesse a pietà ma aiutasse a pregare

C’è un quadro affascinante e misterioso, dipinto dopo il 1565, il Concilio di Trento si era da poco concluso, da Mirabello Cavalori. Si intitola Ritratto di giovane come allegoria dell’Amicizia, ma forse è un ritratto vero, commissionato per ricordare un amico in carne e ossa. Il ragazzo apre la giubba e indica con il dito un cuore rosso, su cui c’è una scritta, “procul prope”, lontano e vicino. Ai suoi piedi un cagnolino, simbolo di fedeltà. Altre scritte: “morte e vita”, “invero e primavera”. Sulla colonna dietro al giovane, si intravvede un bassorilievo, forse sono Achille e Patroclo. Un’allegoria, un omaggio a un’amicizia virile? Difficile dirlo, ma così evocativa di sfumature e sentimenti, nella Firenze per lungo tempo ritenuta “cupa” e sorvegliata della Controriforma. Una commistione di sacro e carnale, di binari paralleli e conviventi tra sensibilità differenti che la mostra intende suggerire e mettere a fuoco. E ci riesce.

 

Nel mezzo del percorso, a fare da baricentro ideale della mostra, c’è una sala che evoca il celeberrimo Studiolo di Francesco I de’ Medici a Palazzo Vecchio, il granduca che della cultura fiorentina della seconda metà del secolo fu mecenate e ispirato ispiratore. Lo Studiolo, progettato dal Vasari e sotto la regia di Vincenzo Borghini, autorevole intellettuale di corte di casa Medici, era il luogo dove Francesco amava ritirarsi a studiare, a dedicarsi ai suoi prediletti studi naturalistici, di scienze sperimentali ed alchimia. Vi lavorarono una trentina tra i migliori artisti fiorentini dell’epoca, nell’ambizioso progetto ideale di costruire una summa della sapienza e della cultura profana, oggi diremmo laica, che doveva sorreggere le sorti e le virtù civili dello Stato. Così nell’evocazione dello studiolo convivano una Creazione di Jacopo Zucchi e l’allegoria della Fatica di Santi di Tito, il Mercurio del Giambologna e l’allegoria dell’Umiltà di Pietro Candido. Il senso di una Città (ideale) in cui sapevano, e per forza dovevano, convivere la religione austera e la pubblica moralità, la pietà cristiana e e gli interessi e i piaceri profani, sotto un’unica guida politica.

 

La "Deposizione" di Rosso Fiorentino e quella di Pontormo. Un sogno vederle insieme

La grande mostra allestita a Palazzo Strozzi è l’ultimo capitolo di una trilogia. Un progetto effettuato su un percorso lungo, non consueto per le tempistiche strette del mercato espositivo di oggi. un progetto a suo modo ardito e portatore di significati aggiuntivi anche per una città come Firenze, che non manca certo di offerte per il grande turismo culturale. Nel progetto che regge la mostra “Cinquecento a Firenze, ‘maniera moderna’ e Controriforma” c’è qualcosa di più del semplice invito a una passeggiata tra i quadri di un’esposizione. C’è qualcosa che viene chiesto, come contributo d’intelligenza, anche al visitatore: come gusto della bellezza, ma anche della conoscenza. C’è l’ambizione della Fondazione Palazzo Strozzi di perseguire un proprio ruolo nel mercato ormai internazionale delle mostre. Che è quello di fare della arte dell’esposizione un oggetto duraturo, utile allo studioso come al profano, senza inseguire a tutti i costi le mostre blockbuster e resistente alle stagioni dell’effimero. Così è la riscoperta, che questa mostra per molti versi consacra, di un periodo, il Cinquecento fiorentino, tutt’altro che “di maniera” e ripiegato rispetto al fulgore del Rinascimento.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"