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Carte d'identità

Nicola Imberti

Ci rappresentano sui documenti per anni. Ma siamo davvero noi quelli ritratti sulle nostre fototessere (che non ci piacciono mai)?

E’ l’oggetto più comune. Tutti ne abbiamo almeno una. Copie conformi della nostra identità racchiuse in 40 millimetri per 33. Sfondo “grigio, crema o celeste, oppure bianco”, nessun altro oggetto o soggetto, la testa centrata, il viso non inclinato, lo sguardo rivolto verso l’obiettivo, nessun copricapo, l’espressione neutra. La legge ci vuole così. Ma siamo veramente noi quelli rappresentati nelle fototessera che “ornano” i nostri anonimi documenti?

 

Per quanti sforzi facciamo, la fototessera è per definizione una foto "brutta". Non ci piace, la rifaremmo dieci, cento, mille volte

Narcisisticamente parlando, chiunque si trovasse a rispondere, probabilmente direbbe di no. E un po’ ci conforta il sapere di trovarci di fronte a un ufficiale che perplesso confronta l’immagine con il nostro viso, la guarda e ci sguarda, quasi non riuscisse a intravedere alcuna somiglianza. In fondo, si sa, per quanti sforzi facciamo, la fototessera è per definizione una foto “brutta”. Non ci piace, la rifaremmo dieci, cento, mille volte. E in ognuna troveremmo comunque un difetto, un’imperdonabile imperfezione.

 

La tecnologia, in questo, ci è stata d’aiuto. Era il 1962 quando, a Roma, Dan David, Pierre e Philippe Wahl, fondavano la Dedem, società che produce le cabine per fototessera. Attualmente esistono 6.000 apparecchi in tutta Italia, quasi uno per comune, e in questi 55 anni tante cose sono cambiate. Oggi non dobbiamo più preoccuparci di teste tagliate, sorrisi forzati che sembrano il frutto di rigor mortis, occhi chiusi o raggi di luce improvvisi che filtrano da una tendina in panno mai tirata a sufficienza. Se l’immagine non ci piace possiamo cancellarla e rifarla. Eppure, nonostante questo continuiamo a vederci irrimediabilmente diversi, migliori. Perché?

 

“La fotografia è un’eredità della società dei Lumi – spiega al Foglio Giovanni Chiaramonte, classe 1948, uno dei fotografi italiani più apprezzati nel mondo, cresciuto nella tradizione teologica ed estetica di H.U. von Balthasar, indagatore del rapporto tra luogo e destino nella civiltà occidentale – fin da principio, quindi, è stata presentata soprattutto come un’innovazione tecnica. La macchina era lo strumento che poteva dare e avrebbe dato oggettività all’immagine. Lo stesso François Arago era un fisico e un matematico, un uomo di razionalità. E quando presentò all’Accademia delle Scienze di Parigi la scoperta di Daguerre (il “dagherrotipo” antenato della foto ndr), il suo fu soprattutto un elogio dell’oggettività, della possibilità di prescindere in maniera totale dal soggetto. In tal senso la fototessera realizzata con una macchina automatica è la massima espressione di questa oggettività tecnica”.

 

“Ma allo stesso tempo – continua – è anche la massima espressione della nostra soggettività. Per la normativa quella foto certifica la nostra identità”. E non solo per la normativa. La nostra identità è sempre ontologicamente legata a un’immagine di noi. A una rappresentazione della nostra soggettività. Ecco allora che, secondo Chiaramonte, proprio questo cortocircuito tra soggettivo e oggettivo, tra tecnica e realtà, produce in noi quell’inspiegabile senso di “spaesamento”. “Siamo soli davanti ad un obiettivo meccanico. E ogni volta cerchiamo di metterci in posa nel miglior modo possibile. Ma l’immagine non coincide mai. Questo perché la nostra identità è anzitutto relazione con un altro. Ci deve essere sempre un altro, uno sguardo che svela la verità della nostra esistenza”.

 

Nel 1972, durante la Biennale di Venezia, Franco Vaccari realizzò l’installazione “Esposizione in tempo reale n.4”. Mise al centro di una sala una cabina per fototessere e chiese a chiunque passasse di lasciare “una traccia fotografica” di sé. Alla fine dell’evento le strip, le strisce composte da quattro scatti, furono oltre 6.000. A rivederle oggi è difficile non pensare che tutti abbiano provato, in qualche modo, a mettere in scena una rappresentazione. Un’idea, forse anche studiata a tavolino, di sé. Ed è altrettanto difficile dire che quella sia la loro identità. E’ come se restasse un’ultima, incancellabile, impressione di finzione. “Perché manca qualcosa”, sottolinea Chiaramonte. “La macchina fotografica rappresenta la massima invenzione della civiltà occidentale. La modernità, la società moderna, è per eccellenza società dell’immagine. E’ come se tutto il mondo potesse essere risolto in un’immagine. Ma ogni volto è un universo a sé, un’identità singolare. E per cogliere questo abbiamo bisogno che dietro alla macchina ci siano un occhio e un cuore. Non a caso i più grandi ritrattisti della storia, da Avedon a Newman, appartengono alla tradizione ebraica. Perché è solo nell’incontro con ciò che mi permette di conoscere il valore della mia vita, cioè con Dio, che io posso cogliere il senso e il valore della vita di chi mi sta di fronte. E tradurre in una foto il tuo volto. Unico e irripetibile”.

 

“In questo senso – prosegue – il discorso attorno alla fototessera, alle nostre difficoltà nel riconoscerci in quell’immagine, è strettamente legato a quello sull’identità della nostra civiltà occidentale. Alla perdita del senso dell’io. Ormai, attraverso Facebook e Instagram, siamo abituati a raccontare la nostra vita per immagini, a costruire con le immagini il nostro profilo identitario. Ma le avete viste quelle foto? Cerchiamo sempre di assumere le pose di qualcun’altro, di imitarne i gesti. E’ praticamente impossibile trovare, su Instagram o Facebook, immagini che siano vere. Questa è la prova che se perdo il mio io, la mia identità, ho solo due possibilità: l’individualismo o il conformismo. Invece ogni volto ha in sé un mistero. E per scoprirlo non basta la tecnica, serve uno sguardo, un cuore”.

 

"Il fotografo è complice del nostro narcisismo. Scattata da lui quell'immagine sarebbe diversa", dice il poeta Umberto Fiori

Uno sguardo, in parte diverso da quello di Chiaramonte, è quello di Umberto Fiori. Insegnante, musicista tra i componenti degli Stormy Six, ma soprattutto poeta. Una poesia, la sua, che potrebbe essere definita “fotografica”. Versi in cui la centralità dell’immagine spesso risulta decisiva. Negli ultimi cinquanta anni ha raccolto le proprie fototessere automatiche che ora sono diventate il fulcro del suo ultimo progetto. A muoverlo la domanda più semplice, quella che sintetizza lo scarto tra realtà e rappresentazione: ma siamo veramente noi? “La foto automatica – spiega Fiori al Foglio – è una rappresentazione di noi, come tutte le immagini. Ma qui la nostra identità è ridotta alla sua crudezza più inquietante. Il che potrebbe farci pensare che sia più vera”. E allora perché facciamo così difficoltà a riconoscerci? Perché non riusciamo a non trovarla “brutta”? E’ come se nella fototessera mancasse un pezzo della nostra umanità.

 

“Nella foto automatica, la nostra umanità c’è tutta – sottolinea Fiori – Non potrebbe essere altrimenti. I nostri (auto) ritratti realizzati dalla macchinetta ci sembrano ‘brutti’ (o meglio, noi ci troviamo brutti) perché l’obiettivo non ha intenti estetici, si limita a registrare quello che vede. Come in uno specchio. Ma quando ci guardiamo allo specchio tendiamo ad assumere, magari inconsciamente, la posa e l’espressione che ci sembrano migliori. Anche nella cabina lo facciamo; ma l’occhio della foto automatica riesce quasi sempre ad aggirare le nostre intenzioni, a sorprenderci in una smorfia scialba, in una luce impietosa. Questo mi affascinava e mi affascina”.

 

A differenza di Chiaramonte, quindi, per Fiori lo sguardo del fotografo non rappresenta la chiave per la verità, piuttosto rischia di trasformarsi in un “curatore” del nostro ego. “Non c’è dubbio che quell’immagine, scattata da un fotografo, sarebbe diversa. Il fotografo, di regola, è complice del nostro narcisismo: ci guida, ci incoraggia, ci aiuta a voltarci dalla parte giusta, ad atteggiarci nel modo migliore, magari poi ritocca anche l’immagine. Nella foto automatica abbiamo di fronte un occhio impassibile che non dà consigli né incoraggiamenti. In un certo senso i fotografi siamo noi stessi; ma l’obiettivo non ci obbedisce mai come quello di un apparecchio normale”.

 

"Ci mettiamo in posa, ma l'immagine non coincide mai", dice il fotografo Chiaramonte. "La nostra identità è relazione con un altro"Il discorso sulle difficoltà nel riconoscerci in quell'immagine è legato a quello sull'identità

Ed è attorno a quell’immagine “cruda”, partendo da quelle foto “inquietanti”, che Fiori ha composto i suoi ultimi versi. “La mia poesia – racconta – è sempre partita dalle immagini, in particolare da quelle fotografiche. Nei primi anni Ottanta, con una Polaroid, ho scattato una serie di foto delle case di Milano, che man mano si sono tradotte in scrittura (in particolare nei primi libri: “Case”, “Esempi”, “Chiarimenti”). La mia collezione di autoritratti automatici (iniziata nel 1968, e che oggi conta circa 750 foto tessera) solo di recente ha incontrato la scrittura in versi, grazie allo stimolo che mi veniva dal mio amico (e poeta) Antonio Riccardi. Nel libro a cui sto lavorando, intitolato ‘Verso la faccia’, i versi raccontano sotto varie angolature il mio lungo rapporto con la cabina della foto automatica, e riflettono sul senso di questa ossessione, sulla ricerca di una chimerica identità ‘obiettiva’, priva dei filtri che avrebbe un ritratto realizzato da un professionista o addirittura da un artista. Alla connaturata crudezza del ritratto ‘automatico’ si aggiunge lo spettacolo (mesto, ahimé, ma forse istruttivo) degli effetti del tempo su una faccia”.

 

Il tempo, ma anche lo spazio. Quello della fototessera è per sua natura (e per obbligo di legge) asettico. Uno sfondo “grigio, crema o celeste, oppure bianco”. Forse anche per questo, guardandola, siamo colti da un sentimento di spaesamento. Come se questa nostra dimensione “irreale”, a suo modo “eterna” (sarà l’immagine che ci rappresenterà per anni sui nostri documenti), rendesse tutto più difficile da comprendere, riconoscere, accettare. Così magari preferiamo e riteniamo più belli i selfie, anche se evidentemente artefatti da un lavoro di postproduzione fatto di filtri, luci modificate, vignettature.

 

“La differenza – spiega Fiori – è che al centro del selfie il soggetto è colto in una scena, in un momento, in una situazione, insomma in una dinamica. Nella cabina della foto automatica tempo e spazio non entrano se non in minima parte. Lo ‘scenario’ resta lo stesso negli anni. Protagonista assoluta è la faccia nella sua nudità, nella sua fissità (che le smorfie si sforzano a volte di correggere). Non mi sento di dire quale delle due forme renda meglio il nostro essere. Personalmente sono molto più interessato alla foto tessera, dove mi pare che tempo e spazio – proprio perché sembrano esclusi – emergano ancora più vivamente”.

  

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, due poesie inedite di Umberto Fiori della serie “Verso la faccia”

   

FOTO TESSERA

Inverno. Buio, nebbia. Fiati, motori.
In giro, poche ombre. Sul piazzale
dove si affaccia
la Camera del Lavoro
splende, sola, la scatola
della foto automatica.

Le tendine scostate, vuota, in attesa:
come nella navata di una chiesa
l’armadio bruno del confessionale.

  

MM


Sotto la piazza,
in fondo alle scale mobili,
svoltato l’angolo, dopo l’edicola e il bar
giorno e notte sta accesa la capanna.
Qui porta il pellegrinaggio.

Scorre la tenda grigia.
Ruota il sedile. Sparisce la banconota.

Anno per anno, nel buio al di là del vetro
torna il miraggio dell’identità.

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