A me la provincia piace: è un capogiro di squisitezze quasi insostenibile

Costanza Di Quattro

La provincialità sembra un'esistenza senza esaltanti avventure, ma cosa sarebbe Proust senza Albertine?

Provinciali, siete tremendamente provinciali”. Molto spesso dietro un’affermazione del genere si nasconde tutto il disprezzo possibile nei confronti di una mentalità greve, chiusa e piccina. E’ provinciale il pettegolo pruriginoso, il moralista ipocrita o il pessimista intransigente. E’ provinciale un’idea priva di slanci, priva di una visione futurista. E’ provinciale chi rimugina sul ricordo di ieri e trafigge il domani di sgomenta tristezza. E’ provinciale chi si crogiola nella serietà aborrendo l’ironia.  Eppure, la provincia di per sé non meriterebbe di offrire la radice del suo nome a un’aggettivazione tanto dura e negativa. Certo, a noi provinciali manca la pluralità delle scelte, toccherà accontentarci di un solo teatro per città, di un cinema o forse due, di una quantità esigua di librerie. Non abbiamo i supermercati divisi per settore, i parrucchieri divisi per colore, le estetiste divise per specializzazione. Ci mancano centinaia di indirizzi universitari con le loro molteplici sottospecie in ogni settore di umana conoscenza. Non abbiamo le metropolitane di superficie (neanche quelle sotto superficie), ogni tanto ci mancano anche le strade, però le autostrade le abbiamo studiate sui libri e sappiamo benissimo che sono identificate con il colore verde. A noi provinciali manca la fretta, l’inquietudine, la sensazione che il tempo non abbia abbastanza tempo. 

 

Ci mancano le file ai semafori, le code in tangenziale. Se portiamo ritardo non è colpa di nessuno se non della nostra indolenza.  Da noi in provincia parti da casa alle 7.50 ed entri in ufficio alle 8.05. Spesso ti fermi a prendere il caffè ed entri alle 8.30; vero, hai tolto 25 minuti al lavoro, ma li hai guadagnati in salute, allegria e vita.

 

 Noi provinciali ritroviamo nella strada una diramazione della nostra casa, nel saluto ripetuto a ogni passante, che nella peggiore delle ipotesi è solo un conoscente, vi è tutta la presunta convinzione di avere un mondo, il proprio mondo, a portata di mano. All’impossibilità di privacy, tanto agognata e mai realmente cercata, fa eco la salvifica consapevolezza di una quasi impossibile solitudine. Lo smog non rende grigio il cielo (del resto non c’è), il traffico non ingorga le strade (manca anche quello), alle catene americanizzate che propinano cibaglie di dubbia provenienza rispondiamo con le botteghe artigianali, allo street food contrapponiamo l’arancina (cibo da passeggio ante litteram), alla tristezza silenziosa e spersonalizzante della metropoli controbattiamo con il sorriso entusiasta di chi non corre ma cammina, di chi non sussurra ma parla, di chi non alza la voce ma grida.

 

Noi provinciali siamo inevitabilmente spinti a dare di più. Il senso di inadeguatezza che il mito della città ci ha inculcato, se da un lato ci ha reso deboli rispetto alla grandeur cittadina, dall’altro ci ha fortificati esaltando la brillantezza culturale, artistica e imprenditoriale di tanti.

 

Anche l’amore in provincia è meno soggetto allo sciupio inevitabile del tempo. Forse è proprio la provincia a renderlo spesso eterno insistendo continuamente sugli incontri forzati che non necessariamente consolidano un amore, ma quasi certamente lo rendono scevro dall’odio che le distanze e i silenzi esaltano.

 

Tutto assume connotati di apparente verità e placida accettazione. Anche il mormorio esteriormente fastidioso che si accompagna alla schiena di un passante, assume il fascino della tuttologia che rappresenta la provincia: c’è sempre qualcuno che saprà qualcosa di più di qualcun altro. E se gli occhi di tutti sono puntati su tutti, se il pettegolezzo si intrufola meschino in ogni racconto e in ogni gesto, se l’invidia si annida nell’animo torbido dell’infelice, non è certo colpa della provincia.

 

Ristabiliamo quindi l’ordine delle cose rifuggendo da quei luoghi comuni che tanto ci attanagliano e ci perseguitano offrendoci spesso un escamotage, forse una banalissima scusa, per deresponsabilizzare noi e legittimare uno spazio fisico ristretto come causa di ogni male. Se godi delle sfortune di qualcuno parlandone ipocritamente e alimentandone il chiacchiericcio, non sei provinciale: sei cattivo. Se vedi nel successo altrui il tuo personale insuccesso, non sei provinciale: sei invidioso. Se nulla ti appaga mai abbastanza come il fallimento di qualcun altro, non sei provinciale: sei insoddisfatto. Per Dio! L’italiano è bello perché è preciso.

 

Sono gli sguardi dietro le persiane chiuse, il suono di una campana sempre battente, il vociare di un ambulante, il rumore di un pallone tra le ginocchia sbucciate di un bambino per strada, il brusio delle voci e non il fastidioso rumore del traffico cittadino, a dare il metro, nella loro provincialità se non addirittura paesanità, della reale dimensione nella quale il nostro essere ritrova pace.

 

Quella provinciale risulta a tanti, ma solo apparentemente, un’esistenza priva di esaltanti avventure, di brucianti passioni e di arriviste ambizioni; praticamente una contraddizione in termini, una “non esistenza”.  Immaginare una vita così ripugna e risulta impossibile un po’ come immaginare un Balzac senza debiti o un Proust senza Albertine. 

 

Eppure mi domando: non sarebbero stati più felici senza? 

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