Una scena della serie te

I nuovi yuppie? Impegnati nella "spietata riproduzione del proprio prestigio"

Giulio Meotti

La sociologa californiana Elizabeth Currid-Halkett spiega perché "i figli di questa élite saranno l'élite del 2050"

Roma. In un editoriale sul New York Times questa estate, David Brooks ha raccontato il seguente episodio: “Di recente ho invitato a pranzo un’amica che ha solo un diploma di scuola superiore e nessuna laurea. Peccando di insensibilità, l’ho portata in un negozio di panini gourmet. All’improvviso l’ho vista tirata in volto, mentre scrutava dei panini ribattezzati ‘Padrino’ e ‘Pomodoro’, o ingredienti come la soppressata, il capocollo o la baguette striata. Allora le ho chiesto se preferisse andare da qualche altra parte, lei ha annuito e siamo andati a mangiare del cibo messicano”. L’aneddoto è stato oggetto del sarcasmo di tanti colleghi di Brooks. Un libro della sociologa californiana Elizabeth Currid-Halkett, The Sum of Small Things, racconta chi fece dell’ironia sulle frequentazioni dell’editorialista con persone “solo diplomate” e ridacchiava sulla “soppressata”. Currid-Halkett prova a decifrare, infatti, chi sono i “nuovi yuppie”, una categoria in cui la studiosa fa rientrare figure professionali diverse, come i produttori delle serie Hbo, i dipendenti delle organizzazioni non governative, gli sceneggiatori, i dipendenti della Gates Foundation, i giornalisti, gli amministratori di università, i bioingegneri, i progettisti della Silicon Valley, i consulenti di McKinsey, i banchieri di Goldman Sachs e gli avvocati. Persone eleganti, fra i quaranta e i cinquanta, dai fisici ben curati, freschi magari da una sessione di yoga, che leggono il New Yorker e discutono di diseguaglianza. È la nuova “élite culturale”. Donald Trump è sullo sfondo del libro, poco citato, ma ci pensi di continuo come all’antitesi di questa classe.

    

Questa élite crede nei “fatti” e negli “esperti”, è cresciuta comodamente durante il boom degli anni Settanta, la sua polizza assicurativa è l’istruzione e coltiva una utopia politica fatta di alte tasse, egualitarismo, femminismo ed ecologismo. Vogliono essere non solo ricchi, ma “migliori”, scrive Currid-Halkett. “La diseguaglianza che vedono ovunque non è mai colpa loro”. I soli poveri che conoscono sono le tate dei loro figli. Consumano molto, ma nutrono il “disprezzo per le cose”. Non comprano più Suv, ma spendono molto per il proprio corpo. Vivendo quasi tutti in città dove tutto e tutti è in mostra, hanno bisogno di vestiti costosi. Pensano che i corpi (come il cibo) dovrebbero sembrare “naturali”, da qui l’ossessione per l’“organico” e l’“artigianale”. Non vanno più per centri commerciali, ma su Facebook.

    

È una élite culturale “impegnata in un progetto spietato di riproduzione della propria posizione sociale”. A meno di un drammatico spostamento economico, i figli di questa élite saranno l’élite del 2050. “La meritocrazia sta diventando ereditaria”. La nuova élite non si misura dal denaro ostentato, ma dalla “acquisizione di una conoscenza e di un sistema di valori”. Uno di essi è la “voluntary semplicity”. La volontaria semplicità. Il culto del corpo è diventato una “virtù”. L’estetica è etica. Currid-Halkett sostiene in modo convincente che le preferenze dei consumatori di questa élite - il podcast, la rivista, il pilates - sono ora il mezzo primario attraverso il quale i membri del ceto istruito stabiliscono, rafforzano e dimostrano la propria identità.

   

Leggere il New York Times è una parte del linguaggio comune di questa classe e citare (senza leggere) Paul Krugman in una cena significa aderire a questo gruppo. Currid-Halkett spiega che “le persone intelligenti vogliono stare attorno ad altre persone intelligenti”, in modo tale che le città sono diventate “casse di risonanza culturalmente omogenee”. Così che Londra, Parigi, il litorale di Los Angeles, il nord di Chicago, Manhattan, Seattle, Toronto, Berlino e San Francisco hanno più cose in comune fra di sé di quanto non ne abbiano con le rispettive periferie città limitrofe. Tutti vogliono entrare a far parte di questa bolla. È una vera delicatessen.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.