Andare a scuola di media

Paola Peduzzi

Ci sono giornali che eccitano il mercato editoriale. Storia delle lotte attorno al Daily News, e altri racconti

Il Daily News, giornale newyorchese fondato 98 anni fa, è stato comprato per un dollaro dai suoi antichi padroni, e c’è chi dice che è un ritorno a casa. Ma senza grandi feste, un po’ per quel dollaro simbolico che riassume il dramma editoriale che sta vivendo il News, e un po’ perché la casa è nel frattempo cambiata, e chissà se sarà così sicura. L’acquirente è Tronc, acronimo che genera ironie e battute di ogni tipo deciso dal suo presidente, l’imprenditore tech di Chicago Michael Ferro: è la ex Tribune Publishing, che oggi detiene tra gli altri il Los Angeles Times e la Chicago Tribune, e che fino al 1991 editava appunto il Daily News. E’ la casa madre, ma da allora a oggi sono cambiate molte cose, il News non è più il tabloid must read di New York – è stato schiacciato dalla competizione del New York Post, di Rupert Murdoch, che pur di mantenere la propria posizione in città è disposto a coprire perdite enormi ogni anno – ed è arrivata l’era di internet che ha falciato i rendimenti di tutti i media cosiddetti tradizionali, figurarsi di quelli più deboli. Però per New York il News rimane un oggetto di culto, nell’immaginario cinematografico degli anni Cinquanta – quando ogni giorno vendeva 2,4 milioni di copie, e la domenica quasi il doppio – è il News a essere sempre immortalato, con i suoi titoli grandi e il suo radicamento nella working class, “la sensibilità delle maniche arrotolate”, come scrive il New York Times in un editoriale in cui dice al News: non perdere la tua “newyorchesità”, resta coraggioso.

 

Quel che è cambiato poi è che New York è la patria di Donald Trump, e che Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti, e che il News non ha smesso di immortalarlo con i panni del clown, anzi, ha estremizzato ancor più immagini e titoli. Perché non c’è soltanto la guerra ideologica al Post di Murdoch, che sostiene Trump, ma c’è un’altra guerra, personalissima e ferocissima, con il signore che comprò il Daily News nel 1993, che è un certo Mortimer Zuckerman, ormai ottantenne mattatore del real estate e dei media newyorchesi, alter ego al tempo stesso di Murdoch e di Trump.

 

Zuckerman, ebreo nato in Canada, ha cominciato nel mondo dell’immobiliare a Boston e si è poi appassionato ai media, comprando negli anni Ottanta testate famose come l’Atlantic e l’U.S. News & World Report (di cui è ancora formalmente editor in chief), e infine il News, icona newyorkese che all’inizio degli anni Novanta stava collassando in seguito a mesi di scioperi e proteste sindacali. Zuckerman credeva che non sarebbe riuscito a prendere il News, che ancora oggi definisce “la mia gioia più grande”, perché nel 1991 il tabloid era stato comprato da Robert Maxwell, magnate britannico dei media, il quale però morì otto mesi più tardi, cadendo dal suo yacht nelle Canary Islands. Di lì a poco si scoprirono i traffici di Maxwell, una truffa da un miliardo di dollari, libri in tribunale, scioperi permanenti al News. Così arrivò Zuckerman, 36,6 milioni di dollari come dote e un piano di tagli del personale di cui molti parlano ancora oggi (ci sono giornalisti che sono lì da decenni, il News è una fede). I conti sono stati sempre un problema – oggi perde, secondo le stime complessive 61,2 milioni di dollari –, la sede storica è stata abbandonata (la chiamavano “Daily Planet”, perché nella sua hall fu ambientata la redazione del Daily Planet di Clark Kent, cioè di Superman) e cambiata poi due volte, ma il prestigio è cresciuto molto (assieme ai colori, introdotti nel 1996), cinque Pulitzer vinti, di cui l’ultimo proprio quest’anno, per un’inchiesta condotta assieme a ProPublica.

 

Soprattutto il News è stato il braccio armato – di caricature e motteggi – contro Murdoch e contro Trump, la ribellione verso lo strapotere di questi magnati spregiudicati e bling bling, una battaglia per l’anima di New York, noi contro di loro, più cattivi che riusciamo. Si sa come è andata a finire: il Post ha vinto e Zuckerman ha venduto la sua gioia per un dollaro, dovendo anche firmare la clausola decisiva: per quattro anni non potrà ideare né investire in un altro tabloid newyorchese.

 

Ora tocca al cinquantenne Michael Ferro che promette di salvare il dna del News: siamo tutti newyorchesi, ha detto in visita alla redazione, cosa tecnicamente vera visto che Ferro è nato vicino a Long Island, ma di fatto è considerato uno straniero, uno di Chicago, è lì ora il centro del suo impero. In realtà di considerazione nei confronti di Ferro non ce n’è molta, è un uomo controverso e bizzarro, alle sue prime avventure nel mondo tech, quando aveva trent’anni, prese il mitico ufficio del fondatore di Playboy Hugh Hefner nel Palmolive Building di Chicago, mantenendo le stanze segrete con proiettori che c’erano e introducendo le sue passioni, i trenini e i videogiochi anni Ottanta. Si vanta di circondarsi di giovani ragazze come consulenti – le chiamano le “Ferro’s Angels” – ed è spregiudicato con i soldi e con le idee. I commenti ostili sono frequenti, e si moltiplicano – Bloomberg gli dedicò un ritratto pieno di aneddoti non sempre edificanti alla fine del 2016 – anche se lui fa di tutto per essere accettato, e ogni anno organizza una festa di compleanno galattica e generosissima, con imprenditori, politici, celebrities, stile Trump diciamo: un anno regalò un Apple Watch a ogni invitato. Ora è a capo di un gruppo che occupa i mercati editoriali rilevanti in America, e vuole far diventare il Los Angeles Times più grande e influente del New York Times, aprendo uffici di corrispondenza in tutto il mondo. Quanto al Daily News non ci sono indicazioni chiare, chi è dentro dice che lo spirito è quello di salvare il tabloid più antico della città, che ha inventato la cultura stessa del tabloid, aggiungono alcuni in dispregio a Murdoch, ma il piano editoriale non è ancora delineato. Ci si gode la salvezza, per ora, non sapendo bene come prendere una delle frasi preferite di Ferro: “Non importa da dove si inizia, importa dove si finisce”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi