R. L. Stevenson

Dalle Loire verso sud in sella a un'asina. Ma R. L. Stevenson era un ottimista

Marco Archetti

Il freddo, i lupi, i briganti. L'amore può tutto

Ho cercato l’avventura per tutta la vita, una pura avventura senza scopi, come capitava ai primi eroici viaggiatori. Così, trovarmi al mattino sul limitare del bosco in un’anonima zona del Gévaudan, senza sapere dove fossero il nord e il sud, ignaro di ciò che mi stava intorno come il primo uomo sulla terra, un vero naufrago terrestre, era come veder realizzata una parte dei miei sogni. Ero sul ciglio di un boschetto di betulle, tutt’intorno sorgevano nude colline e il vento faceva piegare gli alberi. C’era un freddo cane. Mangiai del cioccolato, trangugiai un sorso di cognac e fumai una sigaretta prima che il freddo avesse il tempo di intirizzirmi le mani. Procedetti in un piacevole stato d’animo nei confronti di tutta l’umanità.”

 

Era un ottimista, Robert L. Stevenson, e di certo lo fu in quell’autunno del 1878 quando, non ancora trentenne, montò in groppa a un’asina chiamata Modestine (un cavallo non sarebbe stato adatto perché “come una signora è troppo volubile, delicato, schizzinoso”) e partendo da Le Monastier, rude paesello noto ai più per l’assenza di belle donne e le sue brutali risse in taverna, si diresse verso sud, dandosi a un viaggio solitario di quattordici giorni che cominciò malissimo seppur fosse nobilitato delle più serie finalità, ossia: 1) fare il punto della situazione, 2) raccogliere materiale per un libro, 3) fornire denaro alla causa amorosa che travagliava lo scrittore, da quando cioè Fanny Osbourne, americana di cui era stato compagno a Parigi, era stata richiamata in patria dal marito californiano, intenzionato a tagliarle i fondi – proventi o morte!, questo il quadretto. Forse, proprio in un quadretto (peggio, in un acquerello), l’avventuroso Stevenson credette di tuffarsi quella mattina del 22 settembre, quando si alzò di buon’ora, sellò la mula e si predispose al romantico, filosofico vagabondaggio, recando con sé una pistola, un fornellino ad alcol, una lanterna, delle candele, una fiasca, qualche libro, delle coperte, tavolette di cioccolato, alcune salsicce, uno sbattiuova. E dato che ogni partenza è accompagnata da un coro di iettatori, puntualmente si sentì vaticinare ogni genere di catastrofe: il freddo, i lupi, i briganti. Ma il giovane scrittore scozzese, entusiasta e tetragono alla malasorte, in un tripudio di endorfine eichendorffiane salutò tutti e partì.

 

Lista di guai che afflissero la prima parte del viaggio: appena partito, si rese conto che la sella scivolava di qua e di là (fragoroso litigio col costruttore e sostituzione con un semplice basto), ma anche così Modestine non ne voleva sapere di avanzare – per fortuna la Grande Regia gli mandò un deus ex machina in forma di villano che lo istruì sull’uso del bastone e sul grido dei conducenti d’asini: “Prut!”, e Stevenson prutò, prutò come un leone, ma Modestine non incrementò mai davvero la sua predisposizione alla fatica, per lo meno fino a che un albergatore di Bouchet-St.-Nicolas non gli costruirà uno sprone con un ago; a Ussel, luogo asperrimo e roccioso, il bagaglio si capovolse (immane fatica per raddrizzarlo, ma una volta raddrizzato si rovesciò dalla parte opposta), poi, oltrepassato il verde bacino dell’Allier, perse la strada, una nuvola lo prese di mira, girò e rigirò in tondo, le cinghie del carico si sciolsero unanimemente e il bagaglio si disseminò per le scarpate; fuori da Langogne grandinò e a Sagnerousse tutto si desolò; a Fouzilhic, alla minima richiesta di aiuto, la gente si chiuse in casa a osservarlo ghignando mentre imboccava la direzione sbagliata. Recensione dei primi chilometri: “Il viaggio fu opprimente. La strada si snodò nella landa più miserevole del mondo, nuda e ignobile. Perché qualcuno debba visitare Le Luc è cosa che va al di là della mia immaginazione.” Ma ecco la svolta: il monastero trappista di Notre-Dame des Neiges, la disponibilità di una cameretta imbiancata a calce, giovialità, fratellanza, e un Salve Regina ascoltato dalla balconata che incanta con la sua severa semplicità. A Lestampes, la certezza: “Avevo ormai finito con piogge e desolazione.” Da qui in poi, solo elogi – delle notti all’aperto, del concerto delle creature, del sole che irrompe al galoppo, dell’aria del sud e delle sue poppute e gaie cameriere come Clarisse, dei promontori di sole della valle del Tarn e dei grappoli di tetti a Cassagnas. Infine, l’arrivo alle Cévennes, un istante che riempie e svuota una vita intera: un ultimo passo quasi inavvertito, che non sembra più decisivo dei milioni che l’hanno preceduto.

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