Foto via Pixabay

Un buon esercizio per l'estate: rileggere Henry James 

Marco Archetti

La differenza tra un luogo pubblico in America e in Europa è lì, in una panchina

La grande differenza tra i luoghi pubblici in America e in Europa risiede nella quantità di sfaccendati di ogni età che stanno seduti sulle panchine a osservarti da capo a piedi mentre passi. L’Europa è certamente il continente dello sguardo esercitato, e le signore, al Pincio, devono passare attraverso quelle che potremmo definire le forche caudine degli occhi, perché il numero di giovanotti che qui, come cenobiti dell’antichità, conducono esistenze puramente contemplative, è enorme. Anche il Corso ne è stipato a tutte le ore. Al mio caffè, di mattina, ne arrivano diversi già alle nove, tutti in ghingheri, coi guanti da sera. Ma non ordinano niente, danno un’occhiata agli specchi ed escono di nuovo”.

  

Uomo dalla conversazione fluviale ma dall’osservazione ferma, Henry James amò Roma come solo la cugina Minny: alla seconda dedicò un personaggio (la Milly Theale de “Le ali della colomba”, eroina dall’impazienza tragica), alla prima gli scritti di “Italian hours”, che elaborò nel 1873 e dai quali possiamo dedurre non solo che il Tevere lo si poteva già descrivere come “giallastro”, ma anche che il sorriso della città era lo stesso di oggi, radioso del dolce messaggio con cui annuncia il primo alito di primavera e carezza gli animi sensibili, inclini alla più dolce indolenza. Venticinque anni dopo queste parole, con “Quel che sapeva Masie” (piena fase sperimentale) James racconterà il fallimento di un matrimonio visto con gli occhi di una bambina, invece mentre concepiva “Italian hours” (piena fase contemplativa) volle raccontare la nascita dell’amore per una città visto con gli occhi di un americano imbevuto di Mito e Gran Pittura, approdato in Italia per scoprire tutto ciò che credeva fosse stato destinato a lui solamente, dal Dio del viaggio e del destino. Per la gioia dei lettori, James è semmai il Dio della divagazione, infatti non finisce mai col parlare di ciò che promette. Nemmeno con Roma lo fa: il punto di partenza è solo la partenza di un punto, poi il punto si fa linea, la linea diventa curva, la curva avvia una traiettoria, così può succedere che ci si avvii sul Corso nel bel mezzo del carnevale ma che presto si scivoli via, di soppiatto, dentro San Pietro, o si sfoci in aperta campagna a cavalcare – una prosa virtuosamente pretestuosa, baciata da un’indole dottamente sfaccendata (per H. G.Wells era un difetto: nel 1915, in un’impietosa caricatura pubblicata sul suo giornale di satira, lo rappresentò come un ippopotamone che tenta di afferrare un pisello verde rotolato in un angolo irraggiungibile).

  

Nel fracasso: comincia così, “Italian hours”. “Le maschere delle donne erano di fil di ferro”, racconta un assordato James, “somiglianti alle etichette del formaggio degli hotel tedeschi, e loro erano armate di paletti o imbuti di stagno con cui spalavano a gesti solenni, dai cestini, calce e farina che rovesciavano sulla teste della gente che affollava le strade. Si accalcavano sui balconi per tutto il Corso, sul quale la loro doccia calcarea faceva gravare una densa, granulosa nebbia. Festeggiai il carnevale aggirandomi lungo il perimetro della città”. Ed ecco che ci immerge inaspettatamente nel silenzio, in quella festa dello spazio che è San Pietro. “Il luogo è la cosa più smisurata concepibile”, racconta, “e assomiglia a una grande regione color ardesia su una carta geografica. Si ha l’impressione di uscire all’aperto, non di entrare in un posto chiuso, l’animo si espande all’infinito. E’ un sollievo sapere che solo la tariffa di una corsa si frappone tra noi e una delle più grandi realizzazioni umane”. Ma non si attarda neanche qui e ci chiede di fuggire fuori Roma, a cavalcare verso i colli Albani in quella luce dallo splendore porpora che ossessiona le rievocazioni di coloro che hanno visto la città e goduto dei suoi piaceri supremamente irresponsabili – contadini in groppa ad asini, villaggi bianchi, querce di sughero in cui immaginare “damigelle dell’Ariosto” e le ondulazioni azzurrine di una lontananza contro cui si stagliano acquedotti in rovina circondati da ciuffi di ginestre e asfodeli pallidi, e via vagabondando fino a rozze taverne che servono vino bianco o rosso, ma mai entrambi. Roma è un incantesimo e James centellina il suo elisir con una previsione di rimpianto: un giorno sa che penserà con malinconia a quelle giornate che furono capaci di convincerlo d’aver provato qualcosa di unico, giornate come miracoli di luce, che hanno potuto trasformare perfino lui, un ippopotamo trasognato, in un “héros de roman”.

Di più su questi argomenti: