Passiamo delle serate di merda. E' ora di accettarlo

Manuel Peruzzo

Quello che è successo al dj Tiga a Roma svela una profonda verità sul nostro essere fighi a tutti i costi

Anche i dj fanno cilecca. Sabato sera è successo al canadese Tiga, ospite dell’Ex Dogana, Roma. La giunta Raggi può così collezionare nuovi punti-degrado: dopo gli animali selvatici che scorrazzano in città, i minacciosi gabbiani hitchcockiani che presidiano la spazzatura marcescente, e la crisi idrica: anche le serate di merda. Se non lo avesse scritto lui stesso su Facebook non ce ne saremmo accorti, perché anche per i fallimenti vale la regola del “se non lo pubblichi non è mai accaduto”. Quello di Tiga è un post sincero, il che merita attenzione, e che fin dall’incipit promette di rompere il tabù: “Ecco qua qualcosa di cui non parla nessuno: cosa succede quando non spacchi”. Saremmo tentati di indovinare la risposta a colpo sicuro: si allunga la fila all’angolo bar, qualcuno probabilmente cerca un pusher.

 

 

Ma ciò che accade al dj lo spiega meglio Tiga. Quando si accorge che è diventato “quello che non è stato in grado di rendere figa la serata” inizia a preoccuparsi. La pista è disertata, la gente si annoia e lui non intercetta il gusto musicale della folla. “I dischi che suoni suonano mosci. Non riesci a entrare in sintonia con la pista. Non riesci ad afferrarne il centro gravitazionale”, permanente. Scatta l’automatismo d’autodifesa del dj tormentato nel posto retrogrado che dà la colpa a “quella massa primitiva” di fronte a lui, il pubblico. Ma dura poco, giacché il dj è un intrattenitore che deve sempre negoziare tra i propri gusti e quelli di chi ha di fronte, non può fare troppo lo spocchioso: il suo saldo bancario altrimenti finirebbe in negativo. Quindi scrive più modesto: “Ci sono delle notti in cui la gente capisce benissimo qualcosa che tu invece non arrivi a capire”. La conclusione pare quella di un amante fuori forma: “Scusa Roma: ti amo, ma stasera proprio non ha funzionato”. In pratica “non sei tu, sono io”. (E noi vorremmo dirgli che anche lei ci mette del suo). Dal numero di colleghi che commentano in suo supporto, e raccontano aneddoti di serate mancate, capiamo che Tiga è diventato un portavoce: anche i dj nel loro piccolo si annoiano. 

 

Quando una serata non funziona in genere la si dimentica, e finisce lì. Siamo in stagione e rischieremo la sociologia da spiaggia dicendo che viviamo in tempi di dipendenza della condivisione, e che pare abbiamo deciso che l’erba più verde debba essere la nostra. Quindi fotografiamo prima di mangiare e mai dopo, pubblichiamo il selfie lusinghiero e mai i 140 scatti di brutale realismo estetico, e così via, nel tentativo di costruire un ideale giovanile anche a quarant'anni. Una brutta serata la dimentichi ma una bella foto è per sempre. Con uno sforzo possiamo ammetterlo, essere adulti significa essere liberi dalla dittatura del divertimento forzato, che è un po’ quel che commenta a Tiga il duo francese Cassius: “Divertente, stavamo scorrendo le foto di dj nei loro jet privati e ci è apparso il tuo post. Sei quello che fa la differenza tra gli uomini e i ragazzini”. 

 

Ma di nuovo, il dj è un intrattenitore, non il nostro terapista. Quindi da lui non ci aspettiamo sedute di psicanalisi collettiva sul nostro rapporto con la musica da club. Da lui ci aspettiamo ci faccia ballare e riempia quel vuoto con della musica. Come ci riesca, ogni sera in luoghi diversi e con gente il cui tasso d’attenzione è inversamente proporzionale al numero di mojito, è un mistero. Il fallimento invece lo conosciamo bene. La dimensione della noia è invisibile alla timeline social ma ben impressa nella cronologia di WhatsApp: solo Zuckerberg sa quante conversazioni nascono quando ci si trova nel posto sbagliato.

 

Quante volte ci siamo ritrovati a una serata mal riuscita a condividere poco spazio con troppe persone moleste, e abbiamo sognato d’essere a casa nostra a leggere, a giocare alla Playstation o a mangiare. Soli. E invece lì, a farci selfie col flash dall’alto per sembrar più magri e più giovani, rimanendo in coda al bar, al guardaroba, alla cassa, al bagno, all’uscita per fumare. Una serata passata ad aspettare che succeda qualcosa, una serata nell'attesa che finisca la serata. Per poi pubblicarla come meccanismo di persuasione di nicchia per i nostri follower. In linea coi tempi del: basta che qualcuno ci creda.

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