L'inutile complessità come religione contemporanea: provate col sale

Andrea Ballarini

Una volta il sale si comprava dal tabaccaio o al massimo al supermercato e il dubbio più grande che si doveva sciogliere era: iodato o non iodato? Ora c'è persiano, himalayano…

La gestione della complessità è la vera, grande sfida dei nostri tempi. Fino a qualche decennio fa credevamo che l’indefinito progresso e l’aumento del benessere ci avrebbero fornito tutte le risposte. Ora però è palese che l’essere umano non riesce più ad avere il controllo. E la nostra inadeguatezza si palesa non solo nell’incapacità di far fronte alle grandi questioni planetarie: l’ambiente, i movimenti migratori, le ricorrenti crisi dell’economia, ma anche nelle minute evenienze quotidiane. Il sale, per esempio. Una volta il sale si comprava dal tabaccaio o al massimo al supermercato e il dubbio più grande che si doveva sciogliere era: iodato o non iodato? Ancorché il gozzo avesse smesso da tempo di flagellare le nostre regioni, le nonne erano molto attente a non far mancare il prezioso elemento al bimbo in fase di sviluppo; da cui la necessità di alzarsi all’alba per passeggiare sul lungomare, così da captare la congrua dose di iodio – inspiegabilmente quello del primo mattino pareva di miglior qualità di quello respirabile con comodo più avanti nel giorno. Perciò, un po’ di sale iodato in cambio di due ore di sonno in più parve una grande conquista.

 

Tuttavia oggi questo non basta più. E’ sufficiente frequentare certi ristoranti fighetti per trovare nella carta, presentate con una nonchalance da far saltare i nervi a Giobbe, composizioni di melanzane al sale blu di Persia o filetti di cernia con dragoncello e sale rosa affumicato al legno di faggio. Ma cosa diavolo è il sale blu di Persia? Una novella delle Mille e una notte? Forse che tra le incombenze delle nostre vite: famiglia, lavoro, palestre, vacanze, amanti, consigli di classe, infarti e così via, qualcuno ha mai avuto il tempo di capire cosa sia e cosa diavolo faccia il sale blu di Persia? Ma visto che quelle melanzane costano diciotto euro la porzione, quel sale lì dovrà avere delle qualità straordinarie, ci siamo detti. In ogni caso, abbiamo accettato di pagare il balzello sull’ignoranza, credendo di avere così regolarizzato la nostra posizione. Beata ingenuità. Prima o poi, magari anche solo perché nella lista della spesa c’è scritto “comprare sale”, e ce lo siamo dimenticati, ci capiterà di entrare in uno di quei negozi di alimentari di qualità, dove si vendono specialità sofisticatissime – e se viviamo in una grande città, una volta o l’altra vi capiterà di certo. Baldanzosamente ci recheremo allo scaffale del sale e invece di un pacchetto di carta o di un’austera scatola di cartone ci troveremo davanti a una serie di vasetti di ogni materiale, forma e colore: di vetro, di plastica, di ceramica, alti o bassi, smilzi o tozzi, sferici o cubici, gialli, rossi, neri, persino bianchi. Roba che nemmeno Cartier con i gioielli; per quanto i prezzi li ricordino. A quel punto, dopo una lunga esitazione, finiremo per scegliere – a caso, ça va sans dire – un vasetto di sale rosa dell’Himalaya. E solo più tardi, quella sera a cena, scopriremo che non sentiamo alcuna differenza dal comune sale del supermercato a cinquanta centesimi al chilo, anzi, ci pare proprio che quel sale da quattro euro per cinquanta grammi non sali un cavolo. Il che ci spingerà a compulsare internet e a scoprire che, sì, in effetti il sale rosa dell’Himalaya sala poco, ma contribuisce a eliminare un sacco di tossine. E allora vorremo saperne di più e scopriremo che ci sono decine e decine di altri tipi di sale, ognuno con le sue deliranti specificità. Esagerazione? Andiamo a cercare la “Guida onnicomprensiva di tutti i sali del mondo” e, oltre al già citato sale rosa dell’Himalaya, ci troveremo il sale rosa dell’Australia, i fiocchi di sale di Cipro, il nero Black Lava sempre di Cipro, quello di Guérande e quello di Camargue, il sale giapponese di Aguni e il takesumi bamboo, l’Ankur Chemfood Double Fortified o il sale Indiano Kala Namak, il marino balinese a forma piramidale, per tacere del Salfiore marino di Romagna o della Riserva Camillone di Cervia, da non confondere con il Sale marino di Cervia. E poi ancora, con un lieve senso di vertigine, il Fior di sale di Trapani, il Flor de sal de Mexico, il marino neozelandese natural cento per cento biologico, il Rosa Maras, il sale integrale bianco puro Halen Mon, il Marino Antartico, il Mesquite dell’Atlantico (affumicato), il Marino Rosso Alaea hawaiano, il Marino Nero Hiwa Kai Black Lava, il Marino Affumicato Yakima Applewood, il Marino Affumicato Salish Alderwood, il Marino Affumicato Durango Hickory, il Sonoma Kosher flake salt e infine, con buona pace di Dio, i fiocchi di sale dell’Alaska Pure. E a quel punto, stremati, può darsi che decideremo di ascoltare il medico e di adottare una dieta drasticamente iposodica. L’impossibile gestione della complessità, forse, ha anche dei lati positivi, dopo tutto.

Di più su questi argomenti: