Mark Twain

Stanchi dei turisti americani nelle nostre città? Rileggete Mark Twain

Marco Archetti

Una crociera del 1867 inchioda luoghi comuni ancora attuali

Iniziamo la pubblicazione di “Scrittori in vacanza". Ogni settimana Marco Archetti leggerà e vi racconterà un libro di autori famosi legato al tema del viaggio e delle vacanze.

 


 

Meno sgangherata sì, ma picaresca quasi come la traversata spazio-temporale in cui lo imbarcò Joe R. Lansdale in un folle romanzetto dal titolo Londra tra le fiamme (aggregandolo a una scombiccherata compagnia che annoverava una foca scribacchina, Toro Seduto, Jules Verne, una scimmia marziana, un robot), e in anticipo di centotrent’anni sul David Foster Wallace di Una cosa divertente che non farò mai più, una cosa divertente Mark Twain la fece eccome: era il primo sabato di giugno del 1867 e quella crociera diretta in Europa e Terra Santa, la prima di cui si abbia memoria, fu un’occasione che non si lasciò sfuggire. Non tanto per una seduzione di tipo navale – il nostro amava viaggiare in diligenza, seppure a Venezia si entusiasmò liricamente per le gondole, paragonate prima a un carro funebre e poi celebrate insieme all’abilità di quei “pittoreschi furfanti che le guidano” – ma perché quella scampagnata su scala gigantesca sembrava fatta apposta per offrirgli l’opportunità di guardare da vicino i primi vacanzieri e di sbrigliare la sua capacità di osservazione (già alla partenza annotò che tra i crocieristi si contavano tre ministri di culto, otto dottori, diciotto signore, decine di pezzi grossi dell’esercito, mucchi di professori, un idiota intraprendente che soprannominerà Punto Interrogativo e un autore di brutti sonetti del genere “Ode all’oceano in tempesta” e “Apostrofe al gallo nella stiva” – fossimo a poker diremmo: servito).

 

Il programma della nave Quaker city prevedeva la partenza da New York, una sosta alle Azzorre, quindi tappe a Gibilterra, Parigi, Milano, Roma, Napoli, Atene, Smirne, Costantinopoli, Gerusalemme. Twain si imbarcò col trombettante entusiasmo del pioniere, e non solo: scrisse una serie di scintillanti corrispondenze per il Daily Alta California, il Tribune e lo Herald, rivedute e raccolte in quel fenomenale parto della malignità umoristica che appare oggi, a leggerlo d’un fiato, Gli innocenti all’estero, reportage su un continente e foto di gruppo dei primi americani ricchi alle prese con un viaggio di piacere a epilogo devozionale.

 

Facilissimo all’idiosincrasia e velenoso come una scolopendra, Mark Twain sentenzia e ridacchia sardonico ma tiene sempre e rigorosamente le distanze: considera l’Europa al massimo una pregevole suppellettile (Parigi lo innamora, il Duomo di Milano gli toglie il fiato, piazza San Marco è bella come più non si potrebbe desiderare, Messina è lattea, stellata e picchiettata di luci a gas “come in una fiaba”) ma la vede come un luogo decrepito e barbaro al punto da far mancare il sapone nei bagni pubblici – a Firenze se ne porterà un pezzetto in tasca, per ogni evenienza. Un saggio delle sue feroci saette descrittive? Dell’Arno dice che sarebbe un fiume plausibile “se ci pompassero dentro dell’acqua”, alla prima occhiata Venezia gli sembra “una città inondata dell’Arkansas” e il Colosseo “una cappelliera tutta aperture e finestre, con un fianco asportato da un morso”. Implacabili anche le dichiarazioni di odio per le guide, che amano gli americani e li prendono in giro “come cinesi” perché costoro, grossi bambinoni irragionevoli che vogliono essere intrattenuti e scarrozzati, stolti nelle manifestazioni di sorpresa e con facce da idioti ispirati, gratificano le loro storielle sempre uguali.

 

La sensazione è che non sia semplicemente Mark Twain, ma l’America stessa che guarda il Vecchio continente, le sue istituzioni vetuste e venerabili e le sue glorie sfrante, con senso di estraneità e un irruente piglio di sbrigativa irriverenza: i portoghesi sono “pigri, miseri e incapaci, complici delle imposture gesuitiche” e gli italiani, abitanti in un “immenso museo di splendore e miseria” e compatiti perché torchiati a morte dalle tasse, sono crocifissi a una crudele sineddoche (“bocche sterminatrici d’aglio”). Ma non è finita. Sbarco in Terra Santa e ironie ugualmente diaboliche: la presenza musulmana è emblematizzata in “stracci, abiezione e sudiciume”; Gerusalemme (“non ci vivrei”) è lercia, angusta e bitorzoluta “come la porta di una prigione piena di bulloni”; i pellegrini della Crociera, improvvisamente digiuni e sempre più ridicoli e trasecolanti, suggestionati da poco suggestive adunate di storpi, da putridi rigagnoli e dal colpo di sole occorso a uno di loro, Jack, che a un tratto comincerà a delirare braccia al cielo. Unico sollievo? Sapere che “il tempo passerà e falsificherà questi luoghi, trasformandoli in un bel ricordo”. Tutto è bene, quel che finisce.

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