Abitare con senso nell'alienante città moderna

Sergio Belardinelli

Soltanto una cultura incentrata sull’uomo, la sua dignità e libertà può trasformare in occasioni le enormi possibilità che ci vengono schiuse dalla metropoli

Finché le parole conserveranno ancora il loro senso, la città, anche quella metropolitana contemporanea, rinvierà sempre alla polis, quindi alla politica, all’essere cittadini di una comunità, al luogo dove abitiamo, dove abbiamo la nostra casa e dove tutto ciò che è stato costruito – case, palazzi, monumenti, chiese, campanili, biblioteche, piazze o ponti – costituisce precisamente il registro materiale e simbolico di un mondo, il mondo degli uomini, il nostro mondo, il quale, a differenza della semplice natura, è un artificio, una costruzione umana.

 

Il pessimismo culturale, il senso di decadenza, il fastidio per la civiltà avrebbero favorito l'affermazione dei totalitarismi

Oggi, all’alba del terzo millennio, assistiamo a una crisi di questo artificio (e dell’intera civiltà) forse mai vista negli ultimi secoli. Piani regolatori, architettura funzionale, abusivismi d’ogni genere, periferie spesso abbandonate a se stesse, un’immigrazione crescente sembrano aver reso le nostre città una sorta di arabesco di forme imprevedibili e quasi inintenzionali, dal quale fuoriescono contraddizioni sempre più laceranti sia sul piano individuale che sociale: scandalose povertà, vergognose forme di schiavitù, degrado umiliante di certi quartieri. La Metropolis nell’omonimo film di Fritz Lang, la Los Angeles di Ridley Scott in Blade Runner o Gotham City di Tim Burton in Batman sono esempi eloquenti in tal senso. Un vecchio detto tedesco dice che “la città rende liberi”, ma in questi racconti cinematografici la città appare piuttosto come un luogo degradante dell’humanum e della civiltà in generale, vuoi nella forma di geometrie sempre più astratte, perfette e inquietanti (Metropolis e Gotham City), vuoi nella forma di una “città-fogna” letteralmente dilaniata dalla violenza e da delitti d’ogni genere (Los Angeles).

 

Eppure, ciononostante, la città resta un orizzonte insuperabile dell’umano. Nel bene e nel male, è la città il luogo privilegiato in cui gli uomini realizzano la propria umanità, il luogo in cui le culture umane esprimono le loro miserie, ma anche le loro grandezze.

 

L’uomo è un animale che abita. Non lo diremmo di nessun altro animale, ma quando parliamo di uomini, sappiamo che essi abitano da qualche parte; sappiamo che essi hanno una casa, un luogo dove sentirsi protetti e dove coltivare i propri affetti. Non è umano essere costretti a vivere sempre all’aria aperta come gli uccelli o sotto i ponti come fanno i gatti. L’abitare, la casa e la città (la polis, quindi la politica) esprimono ciò che vi è di più profondamente umano.

 

Come ha mostrato Martin Heidegger, nel famoso saggio del 1951 su BauenWohnenDenken, il “costruire” esprime l’essenza più profonda dell’“abitare” dell’uomo. Con un linguaggio un po’ arcano e quasi oracolare, giocando sul fatto che l’antica parola tedesca “Buan” racchiudeva in sé, non soltanto il significato di “costruire”, ma anche quelli di “abitare” e “custodire”, Heidegger mostra come l’“abitare-costruire-custodire” vada ben oltre la semplice “casa”, ma esprima la modalità privilegiata dell’essere uomini. “Il modo in cui tu sei e io sono, la maniera secondo la quale noi uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare”.

 

Per essere liberi occorre emanciparsi dalle "necessità" naturali, che sono i ritmi sempre uguali della natura stessa

Senza il mondo che gli uomini hanno eretto tra sé e la natura, senza la stabilità e la permanenza che questo mondo garantisce, non sarebbero possibili la politica né la storia, avremmo soltanto il gigantesco, immutabile ripetersi di cicli naturali, dove in senso proprio non appare nulla a nessuno e dove ci sarebbe soltanto qualcosa di simile alla mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Per questo possiamo dire con Heidegger che “costruire è autentico abitare” e “l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra”.

 

Hannah Arendt, certo riprendendo le riflessioni heideggeriane, ha scritto a questo proposito alcune pagine memorabili. A differenza di quanto solitamente siamo indotti a pensare, non esistono piante, animali, boschi, laghi o stelle, diciamo pure una natura, alla quale, grazie alla capacità fabbricatrice dell’uomo, si aggiunge successivamente il mondo umano, diciamo pure, le case e le città. Avviene piuttosto il contrario. E’ grazie a questo mondo costruito dall’uomo che noi abbiamo accesso alla natura; è l’aprirsi di questo mondo che conferisce ad ogni cosa i suoi diversi contorni. A questo proposito mi si consenta di citare un brano heideggeriano, tratto dagli Holzwege, che mi pare sintetizzi bene quanto ho appena detto: “Il tempio, in quanto opera, dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso dell’essere umano nel suo destino… Eretto, l’edificio riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dell’opera fa emergere dalla roccia l’oscurità del suo supporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lì, l’opera tiene testa alla bufera che la investe, rivelandone splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della notte. Il suo scuro stagliarsi rende visibile l’invisibile regione dell’aria. La solidità dell’opera fa da contrasto al moto delle onde, rivelandone l’impeto con la sua immutabile calma. L’albero e l’erba, l’aquila e il toro, il serpente e il grillo assumono così la loro figura evidente e si rivelano in ciò che sono”.

 

Simmel, Spengler, Heidegger e anche Pasolini avvertono come pochi la tragedia culturale che in essa si consuma

Questa lunga digressione sul senso dell’umano abitare e costruire, nonché sulla sua funzione delimitante rispetto a ciò che è “altro”, ci dice in sostanza che è l’artificio umano che schiude all’uomo se stesso e la stessa natura, non viceversa. Il che significa che, al di là delle pur importanti ragioni storiche, c’è anche una ragione, diciamo così, ontologica a sostegno del famoso detto, secondo il quale “la città rende liberi”. Per essere liberi occorre emanciparsi dalle “necessità” naturali, che non sono soltanto la fame, la sete o il freddo, bensì i ritmi sempre uguali della natura, l’essere come fagocitati nel suo ciclo naturale, appunto. Detto un po’ bruscamente, la nostra civiltà prende vita e forma soprattutto nelle nostre città. Ma, insieme alla bellezza della scienza, della tecnica, dell’arte, del commercio e della libertà, nella città prende vita anche qualcos’altro: la brutta bestia, per certi versi inevitabile, del potere. A partire soprattutto dall’epoca moderna la città diventa soprattutto capitale politica, centro del potere amministrativo e della pianificazione della città stessa.

 

Dobbiamo dunque ritenere che gli agglomerati urbani di oggi non consentano più un "abitare" degno dell'uomo? Assolutamente no

C’è forse un nesso assai stretto tra la progressiva crescita di questo potere e ciò che le città sono diventate oggi: luoghi dove le cose, per eccesso di pianificazione, sembrano ormai farsi paradossalmente da sole, nell’indifferenza crescente a qualsiasi idea di bellezza, di libertà o di giustizia. Ma, e qui vengo alla seconda parte di questo mio intervento, che cosa succede nel momento in cui la città che l’uomo ha costruito (diciamo pure, il tempio, di cui parlava Heidegger) perde la sua stabilità, la sua capacità di essere un elemento di identificazione per l’uomo? Rispetto al fluire del tempo e delle stagioni, l’uomo, come abbiamo detto, ha la possibilità di riconoscersi nella permanenza degli oggetti e delle opere che lui stesso ha prodotto e costruito: la sua casa, al pari della chiesa o della città in cui vive. E’ in questo mondo che si sedimentano la cultura e la storia umana. Lewis Munford ha scritto giustamente che la città “è il migliore organo della memoria che l’uomo abbia sinora creato”. Che cosa succede dunque nel momento in cui si innesca un evidente processo di estraniazione?

 

Come ha notato George Simmel, non è privo d’importanza il fatto che “le case cittadine del Medioevo fossero in generale, e spesso ancora fino al secolo XIX, indicate con un nome proprio” e che da un certo momento in poi vengano identificate attraverso un numero. “Nella differenza tra il nome individuale e il semplice numero della casa – dice Simmel – si esprime una diversità nel rapporto del possessore e dell’abitante con essa, e proprio perciò con il suo ambiente. Determinatezza e indeterminatezza della designazione sono qui mescolate in misura del tutto caratteristica. La casa contraddistinta con il nome proprio deve dare a quelle persone una sensazione di individualità spaziale, l’appartenenza ad un punto spaziale qualitativamente stabilito; con il nome, che era associato alla rappresentazione della casa, questa costituisce in misura molto maggiore un’esistenza per conto proprio, colorata individualmente, e che ha per il sentimento una forma superiore di unicità che non nel caso di una designazione mediante numeri, che si ripetono uniformemente in ogni strada e tra i quali sussistono soltanto differenze quantitative”.

 

Per usare un’espressione che ho sentito dall’architetto Lucien Kroll, le prime città antiche nacquero spontaneamente, come una sorta di improvvisazione jazzistica; esprimevano un vero e proprio disordine vivente che cresceva organicamente, non geometricamente. I piani regolatori sono invenzioni moderne che trasformano la città in un oggetto fabbricato, obbediente non più alla liturgia della casa e dell’abitare degli uomini, bensì al potere.

 

In effetti, certi quartieri che vengono costruiti in modo uniforme, privi di punti d’identificazione, l’agglomerato urbano, dove le strade sembrano essere ovunque le stesse, dove le case diventano appartamenti e le piazze cessano poco a poco di essere luoghi d’incontro; questi quartieri, dicevo, hanno ben poco di “liturgico”. Piuttosto essi fanno pensare a Trude, una delle città invisibili di Italo Calvino, la “città continua”, dove i sobborghi e le “strade gialline e verdoline” e “le stesse aiole delle stesse vie del centro” sono uguali a quelli di qualsiasi altra città. Cambiano solo i nomi degli aeroporti.

 

Pertanto, parafrasando il saggio di Georg Simmel sulla “metropoli”, la domanda che ho posto poco sopra potrebbe essere posta anche in questo modo: che cosa succede nel momento in cui la città diventa una sorta di fluido, incapace di marcare lo spazio rispetto agli orti suburbani e la campagna e, come diceva Marx, “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”?

 

Simmel, Spengler, lo stesso Heidegger che abbiamo visto, tanto per fare qualche esempio significativo, ma potremmo anche aggiungere il nome di Pierpaolo Pasolini, sono particolarmente attenti a questa trasformazione della città; avvertono come pochi la tragedia culturale che in essa si consuma. Il prodotto più grande della cultura umana, ciò che l’uomo ha costruito per sottrarsi alla natura, ai suoi cicli sempre uguali, e darsi in questo modo una dimora stabile, una casa, dove far nascere i propri figli, e una piazza dove essere “cittadino”; questo artificio, dicevo, diventa poco a poco una sorta di “seconda natura”, qualcosa in cui diventa sempre più difficile per l’uomo riconoscersi; diventa un nemico che bisogna nuovamente assoggettare. “L’uomo della civiltà, che era stato formato spiritualmente dalla campagna, diviene proprietà e strumento della sua stessa creatura, della città, e infine viene ad essa sacrificato”.

 

E’ la famosa diatriba tra cultura e civilizzazione, che si esprime in diverse forme: nell’abbandono di quello che Spengler chiamava il “corpo vivo” di un’anima, la cultura, a vantaggio dell’affermarsi della sua “mummia”, la civilizzazione; nella “gabbia d’acciaio” di cui parlava Weber o nel passaggio dalla “comunità” alla “società”, da una situazione in cui gli individui erano uniti “nonostante le separazioni”, a una situazione in cui gli individui sono “separati anche quando sono uniti”, di cui parlava Toennies. Confesso che non ho grande simpatia per questa temperie culturale che attanaglia un po’ tutta la cultura europea d’inizio secolo Ventesimo. Il pessimismo culturale, il senso di decadenza, il fastidio per la civiltà e le libertà borghesi che la pervadono finiranno purtroppo per favorire l’affermazione dell’ideologia totalitaria fascista e nazionalsocialista. Ciononostante mi sembra comunque degno di considerazione quanto i “Kulturpessimisti” vedono nella moderna metropoli, ossia la cifra stessa della crisi, dello sradicamento, dello spaesamento della nostra civiltà.

 

La città metropolitana, di cui parlava Georg Simmel, non ha più nulla della bellezza che lo stesso Simmel attribuisce alla città di Roma, da lui considerata come l’esempio più alto di una bellezza, la cui unità, “cresciuta senza un piano consapevole” (altro che piani regolatori!), “sopraggiunge come un dono che nessun elemento singolo potrebbe di per sé ottenere”; la città metropolitana è sempre più anonima e anomica e i suoi abitanti, per sopravvivere, debbono “intellettualizzarsi mettendo a tacere emozioni e sensazioni” e diventare dei semplici “blasé”. “L’essenza dell’essere blasè – dice Simmel- consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alla differenza tra le cose; il loro significato e valore sono avvertiti come irrilevanti. Al blasè tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, senza preferenze”.

 

Riprendendo la terminologia heideggeriana usata all’inizio, potremmo dire che, nella città metropolitana, “abitare” diventa sempre più difficile; le “costruzioni” e la stessa vita pubblica non sembrano interessare più la creatività e la libertà degli uomini; piuttosto sembrano quasi farsi da sole, secondo una logica impenetrabile e autoreferenziale. Quanto infine al riferimento che l’“abitare” intrattiene col “custodire”, col “prendersi cura”, tale riferimento scompare completamente dall’orizzonte del blasé metropolita; nell’opaco, uniforme, indifferente e febbrile grigiore della sua vita, questi si limita tutt’al più alla “cura di sé”. “La casa è tramontata”, dice bruscamente Adorno nei Minima moralia: “La case non esistono più che per essere gettate via come vecchie scatole di conserva”.

 

Dobbiamo dunque ritenere che l’odierna città metropolitana non consenta più un “abitare” degno dell’uomo? Dobbiamo veramente pensare che la moderna città sia La ville cubo-futurista, dipinta da Fernand Léger nel 1919: un caos di tubi e ingranaggi apparentemente sconnessi, ma tenuti insieme da una sorta di segreta, invisibile e coerente potenza? Assolutamente no. Certe tendenze ci dicono soltanto, quali sono le sfide con le quali dobbiamo fare i conti e l’urgenza di fronteggiarle con una cultura adeguata, diciamo pure, con uno sguardo giusto.

 

Contrariamente ai “Kulturpessimisti” di cui ho parlato finora, la mia tesi rispetto all’odierna metropoli è, diciamo così, ambivalente. Di fronte al degrado, alla frammentazione e all’astrazione che la caratterizzano non possiamo certo pretendere che si possa semplicemente ritornare alle forme del passato. Ma non possiamo neanche pensare, parafrasando Hoelderlin, che il processo di urbanizzazione che si è messo in moto abbia in sé soltanto “pericoli” e nessuna “speranza di salvezza”. Un po’ come diceva Nisbet quasi una sessantina d’anni fa, “il problema reale non sta nella perdita dei vecchi contesti, ma piuttosto nell’incapacità dell’ambiente democratico e industriale odierno di creare nuovi contesti di associazione e coesione morale entro i quali le lealtà minori degli uomini possano assumere un significato funzionale e psicologico. Occorre anche aggiungere che in sé né la scienza, né la tecnologia, né la città sono essenzialmente incompatibili con l’esistenza di valori morali e di rapporti sociali che possano fare per l’uomo moderno ciò che il gruppo familiare, la parrocchia, il villaggio hanno fatto per l’uomo nel passato”.

 

Ma se questo è vero, allora il compito che si pone per tutti coloro che non sono rassegnati alla deriva che è stata descritta sopra è teorico e pratico insieme. Detto in estrema sintesi, si tratta anzitutto di comprendere le grandi opportunità che la scienza, la tecnica, l’industria e la città offrono all’uomo, affinché possa realizzare forme di vita più libere, più giuste e più umane; in secondo luogo si tratta di lavorare attivamente affinché queste forme di vita possano realizzarsi per davvero. La mia idea è che, nella condizione in cui si trovano oggi le nostre città, la qualità della vita delle persone dipenderà sempre di più dalla loro capacità di trasformare la libertà in scelte che diano senso alla vita. In questo senso diventa decisiva la cultura, parola che, guarda caso, viene da colere, coltivare; quel coltivare che, nel linguaggio heideggeriano da cui siamo partiti, è anche un “aver cura” e che, insieme al costruire come edificare, ha il suo significato “autentico” nell’abitare.

 

Se saremo capaci di “aver cura”, allora nemmeno nella città metropolitana si spegnerà mai la polis, quindi la politica, l’essere cittadini di una comunità, il luogo dove abitiamo, dove abbiamo la nostra casa, il luogo che dobbiamo “custodire” e dove si sedimenta la storia di coloro che ci hanno preceduti, in attesa di coloro che ci seguiranno.

 

I suddetti “Kulturpessimisti” almeno un merito lo hanno avuto: quello di aver mostrato come il processo moderno, la tecnica, la scienza, l’industria, l’individualizzazione, l’urbanizzazione abbiano prodotto l’indebolimento di qualsiasi legame comunitario, rendendo obsolete pressoché tutte le “forme di vita” del passato. Le nostre città in effetti sembrano ormai “incustodite”; nessuno che si prenda cura dell’umano che esse esprimono e che in esse abita. Prive come sono di memoria e impregnate dell’unica dimensione che sembra essere diventata importante – quella economica, ma sganciata ormai dalla libertà delle persone e sempre più sottomessa alle istanze sistemiche del potere –, esse assomigliano sempre di più alla metropoli di cui parlava Simmel; semplici “macchine da abitare” diremmo noi. Eppure guai se pensassimo che tutto ciò rappresenti una sorta di destino, qualcosa di ineluttabile, sfuggito ormai definitivamente al controllo degli uomini, qualcosa che si fa beffe del loro desiderio di sentirsi a casa, di abitare, di avere “luoghi” in cui identificarsi e vivere in libertà.

 

Rappresentazione fisica emblematica della cultura umana, la città conserva questo suo significato anche quando viene fatta oggetto di aggressione abusiva e diventa per questo un luogo di degrado. Anzi, è proprio nei luoghi di degrado che abbiamo più bisogno di guardarla con questa consapevolezza. Proprio le periferie informi delle nostre città e le città stesse divenute un’informe, immensa periferia (penso a San Paolo, al Cairo, a Lima) hanno bisogno di essere guardate con altri occhi, al pari della massa sterminata di poveri che le abitano; uno sguardo che sappia infondere coraggio, speranza e dignità.

 

Il processo di urbanizzazione rappresenta oggi un fenomeno culturale globale. Ovunque volgiamo lo sguardo, assistiamo a un crescente processo di spostamento delle persone verso la città. Ciò significa che la città viene sottoposta a sollecitazioni d’ogni tipo: igieniche, etniche, morali, economiche (la disoccupazione), urbanistiche, relazionali tra le persone e tra i gruppi, tanto per citarne alcune. Ma si potrebbe anche continuare: senso di estraneità e di insicurezza, spaesamento e solitudine, sfiducia crescente, tra i poveri come tra i ricchi, nei confronti di se stessi e degli altri. Tutti problemi che esigono una bussola morale, civile e politica che sia capace di affrontarli e gestirli in modo giusto ed efficace. Non si può consentire, ad esempio, che le periferie si gonfino di forme di disagio d’ogni tipo e pretendere che questo disagio prima o poi non esploda. Né questi problemi possono diventare un pretesto per spingere la politica verso possibili derive autoritarie. Per questo, e a maggior ragione, la città diventa oggi una sorta di banco di prova privilegiato delle nostre convinzioni più profonde. Abbiamo bisogno di una catarsi, di una conversione culturale che ci consenta di guardare alla città e al grande fenomeno dell’urbanizzazione con uno sguardo che sappia farsi in qualche modo anche testimonianza di una cultura che ci sta a cuore, che amiamo e per la quale siamo anche disposti a batterci. La ricostruzione di un tessuto urbano a misura d’uomo dipenderà sempre di più dalla consapevolezza, dalla creatività, dai “capitali sociali” e dalla cultura “civile”, che le singole persone e i singoli gruppi saranno in grado di mobilitare. La cultura dunque, lo ripeto, sarà la nostra carta vincente. Soltanto una cultura incentrata sull’uomo, la sua dignità e libertà può trasformare in vere opportunità le enormi possibilità che ci vengono schiuse dall’odierna metropoli. Soltanto questa cultura può conferire qualità umana ai nostri stili di vita. In questo senso il bene dell’uomo deve diventare l’orizzonte simbolico della nostra vita individuale e sociale; un orizzonte che ci consenta di guardare a noi stessi, agli altri, alle cose che produciamo, alle nostre stesse metropoli con lo sguardo di chi intende “prendersene cura”, rendendo in questo modo più “umano” il nostro abitare.

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