Isaak Brodsky, V. I. Lenin e manifestazione, 1919

Il delirio sovietico che incantò la crème dell'intellighenzia occidentale

Giuseppe Bedeschi

La proprietà privata da eliminare e il fascino del comunismo

Sono passati cento anni (1917-2017) dalla rivoluzione bolscevica d’ottobre, e per questo anniversario stanno uscendo libri, saggi, articoli, mentre vengono annunciati importanti convegni di studio (come quello organizzato dalla Accademia delle scienze di Torino, che si svolgerà a novembre, con la partecipazione di noti storici).

 

L’opera di Lenin, la nascita dell’Unione Sovietica, Stalin e lo stalinismo, l’ascesa dell’Urss a grande potenza, la vittoria sull’aggressione nazista, il culto di Stalin, la destalinizzazione iniziata da Kruscev nel 1956 col famoso “rapporto segreto” (che denunciava il sistema terroristico sul quale si era retto il potere di Stalin), la caduta di Kruscev, l’epoca brezneviana, l’avvento al potere di Gorbaciov, il collasso del sistema. Tutti questi temi si riproporranno, e saranno ampiamente discussi.

 

Qui vogliamo soffermarci su alcuni punti che, in una certa misura, sono ancora attuali, e possono essere fonte di riflessione proficua per noi uomini d’oggi. E’ ben noto che illustri intellettuali e grandi scrittori si recarono in Unione Sovietica, e videro in questo paese – in cui i cittadini non godevano dei diritti civili e politici, in cui la dittatura del Partito comunista impediva la diffusione di qualsiasi critica e di qualsiasi dissenso, in cui il tenore di vita era modestissimo, ma con disuguaglianze notevolissime (i privilegi della nomenklatura) – illustri intellettuali videro in questo paese, dicevo, una sorta di paradiso terrestre. Così si espressero personalità come H.G. Wells, G.B. Shaw, Th. Dreiser, per fare solo alcuni nomi (un elenco esaustivo sarebbe lunghissimo). Un pensatore della levatura di John Dewey, recatosi nell’Urss, arrivò ad affermare: “Io ebbi per la prima volta una vaga idea di quello che potevano essere stati la forza e lo spirito del primo cristianesimo”. E aggiunse: “La gente va in giro [in Unione Sovietica] come se alcuni pesi enormi, oppressivi, fossero stati rimossi, come se fosse finalmente cosciente di aver liberato delle energie lungamente compresse”. Deliri, certo. Ma qual era la molla di questi deliri che affliggevano personalità così eminenti? C’era, soprattutto, la convinzione che l’Unione Sovietica avesse generato un mondo nuovo perché aveva abolito la proprietà privata. La proprietà privata: ecco il peccato originale, il male assoluto.

 

Del resto, un personaggio come Leone Trotzki, quando parlava, a proposito dell’Urss staliniana, di “rivoluzione tradita” (poiché, egli diceva, le masse popolari erano state private di ogni autonomia politica e di ogni forma di autogoverno, e su tutto l’immenso paese dominava una burocrazia di partito e di stato, che godeva di fortissimi privilegi sociali, che governava e conservava il proprio predominio attraverso il dispotismo e il terrore poliziesco, ecc.) – Trotzki, pur affermando tutto ciò, teneva fermissimo un punto: e cioè che l’Unione Sovietica, avendo abolito la proprietà privata e avendo statizzato tutta l’economia, restava uno “stato operaio”. Testualmente: “La nazionalizzazione del suolo, dei mezzi di produzione, dei trasporti e degli scambi, come pure il monopolio del commercio estero, formano la base della società sovietica. E queste conquiste della rivoluzione proletaria definiscono ai nostri occhi l’Urss come uno stato proletario”. Cioè uno stato superiore agli stati capitalistici.

 

E’ chiaro che a questa convinzione e a questa mentalità dovevano apparire eresie, o addirittura bestemmie, le posizioni dei liberali, convinti che la soppressione della proprietà privata e la statizzazione dell’economia non solo distruggono il ricco tessuto della società civile, base di ogni libertà, ma sopprimono ogni possibilità di libera intrapresa autonoma, ogni creatività e ogni progresso. Diceva acutamente von Hayek: “Tutte le argomentazioni a sostegno della libertà intellettuale valgono anche per la libertà di fare, vale a dire per la libertà d'azione. […] Soltanto là dove sia possibile sperimentare un gran numero di modi diversi di fare le cose si otterrà una varietà di esperienze, di conoscenze, di capacità individuali tale da consentire, attraverso la selezione ininterrotta delle più efficaci, un miglioramento costante”. Proposizioni, queste, che oggi sembrano quasi ovvie. Ma sono davvero accettate da tutti? C’è da dubitarne. Un esempio forse piccolissimo, ma non insignificante: quando, di recente, i D’Alema, i Bersani e i loro amici hanno abbandonato il Partito Democratico e hanno costituito il loro movimento, hanno intonato, nel teatro Vittoria di Roma, l’inno “Bandiera rossa”. Non è stato un buon inizio: anche i simboli politici hanno la loro forza.

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