Una performance sul palco di Ariana Grande, l'artista che si esibiva lunedì sera al momento dell'attentato di Manchester (foto LaPresse)

Orfani di Ratisbona

Giuliano Ferrara

Quella della musica è un’altra guerra di religione che perderemo, senza esportare la democrazia

Al Bataclan avevano appena attaccato “Kiss the Devil”. Serata infernale in nome dell’unico Dio, come dicono i matti. Ariana Grande, che da quanto posso capire è un fenomeno paradisiaco, 126 milioni di followers e un successo planetario in particolare tra bambini e adolescenti, aveva appena smesso di cantare il suo “Broken heart”. Le stragi degli innocenti sono su pentagramma, e prediletto del diavolo è il pop. Non mi piego alla retorica facile sul modo di vita libero e disincantato. Anche il custode musulmano di Palmira, decapitato e appeso a un lampione, era innocente. Anche i Budda uccisi dai talebani erano innocenti. Lo era Nick Berg, l’ebreo Daniel Pearl, lo erano tutti gli obiettivi del terrore. Non è un buon momento per rivalutare i sunniti, per dialogare con le alte autorità teologiche del Cairo, per armare i wahabiti di Riad. Lo stragismo in musica, e la musicalità delle ultime stragi, dovrebbero allertarci.

 

I pupi che saltano dovrebbero fare impressione. Le note che accompagnano i botti jihadisti sono lì per squillare il nostro allarme. Non c’è vigilanza che tenga. Avevo raccontato che avrei potuto farmi esplodere nella Royal Albert Hall, ai Proms della Bbc, con tutto l’agio necessario per chi ami la morte più della vita, senza aver subìto alcun controllo. Il problema non è nella serie dei controlli. Non si possono chiudere le frontiere, che la musica valica comunque, e che non proteggeranno mai dal jihadismo fatto in casa nostra. Bisogna varcare le frontiere dell’islam politico e affrontare la situazione, invece di ripetere che un realismo ispirato a princìpi, quali princìpi poi si sa, consiglia di appoggiarsi di volta in volta ai mullah o ai muftì. Mentre celebravamo ancora una volta la saggia fine dell’esportazione della democrazia, abbiamo dovuto fare i conti con il terrore importato, con le sue radici manchesteriane, con la sua brutale e cattiva occasionalità.

 

Se non abbiamo un Dio da difendere, nessun Dio ci può salvare. Quella della musica, come i grattacieli, le metropolitane, i treni, le redazioni di giornale, le passeggiate lungomare, è una guerra di religione sullo sfondo di un contrasto di civiltà. L’attacco è al modo di vita, d’accordo, ma il nostro modo di vivere è fragile, esposto alla difettosa retorica del sentimentalismo da consumo del bene non durevole: non avranno il nostro amore, questo dovrebbero sapere, e nel modo più chiaro, invece apprendono il contrario, che non avranno il nostro odio. Di conseguenza, largiscono il loro, di odio, seminando paura e morte, nel tentativo di occludere le arterie dell’occidente, una delle quali è l’universalismo musicale, il sogno, naturalmente il sesso, l’idealizzazione della donna e del bambino.

 

Attaccare, per non essere attaccati. Annientare, per non essere annientati. Nessuna legge della democrazia liberale consente di eludere questo problema, come si è visto nel Novecento della Prima e della Seconda guerra mondiale. Invece non facciamo altro. Eludere, per restare illusi. E siamo sempre sorpresi. Ma di che cosa siamo sorpresi, anche questo non riusciamo a saperlo. Dopo il concerto, che cosa? E quando, se non ora? E dov’è il dove in questo ovunque? Non si deve coltivare l’apocalisse, c’è il niente da disvelare nel nichilismo religioso, fanatico, mortuario. E’ un gigantesco problema politico, e in questo la Fallaci non aveva torto: la rabbia, l’orgoglio. Se da quasi un anno non riusciamo a prendere Mosul, loro intanto si prendono Manchester. Per noi è tutto un musical, è La La Land la vocazione dell’occidente, mentre per loro è un fuoco d’artificio, è la guerra di religione, la purificazione delle anime, anche dei piccoli fans, i figli e i nipoti dei crociati.
Certo che odiano la musica. Non la conoscono, non la praticano. Odiano anche la scuola, la guida delle femmine, le icone, la lingua universale della libertà, il passato scavato nella roccia, il tempio e il corpo. Sono discendenti di una profezia, credenti in un unico Dio, il loro, e si scatenano contro i miscredenti. E’ tutto scritto, tutto detto, tutto ritualizzato nella città politica della moschea. E noi, invece di esportare con una violenza incomparabilmente superiore alla loro l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace, invece di rispettare il loro progetto distruggendone le radici sociali e politiche dove risiedono, noi a baloccarci, a piangerci addosso, a ricusare la violenza e l’odio. Dopo Ratisbona, ultima destinazione conosciuta, non si è più sentita una parola, dico una che avesse il malinconico sapore della verità.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.