Alessandro Baricco (foto LaPresse)

Baricco sulla post-verità ha sparato a salve

Giovanni Zagni

"Questa storia della post-verità è una bufala", dice lo scrittore torinese, e offre quattro argomenti. Vediamoli uno a uno: una controargomentazione

La realtà non esiste, diceva il vescovo Berkeley, grande empirista irlandese, e tutto quello che c’è è solo quello che viene percepito dai sensi. Si dice che, per confutare questa posizione tanto evidentemente sbagliata quanto, in apparenza, impossibile da smentire, il dottor Johnson diede un calcio a una pietra a due passi da lui, esclamando: “La confuto così!”.

 

Che la verità non esista è un’idea altrettanto affascinante, al centro della critica di Alessandro Baricco all’espressione “epoca della post-verità” (Robinson di “Repubblica”, 30 aprile 2017). Lo scrittore invita ad evitarla, non solo perché “infondata” e “fuorviante”, ma addirittura perché rischia di promuovere “comportamenti discutibili e idee sciocche”. È il caso di ripetere il gesto del dottor Johnson, assestando qualche garbata pedata.

 

Prendiamo spunto dalla stretta attualità: il genitore che decidesse di non vaccinare il proprio figlio perché la Rete presenta un profluvio di “verità alternative” sull’efficacia dei trattamenti farebbe una scelta senz’altro sciocca, sbagliata, contraria alla verità della scienza, e dannosa per il pargolo e per la comunità. E, per prendere in prestito l’incipit brillante di Baricco, fine, per quelli che hanno fretta.

 

Per gli altri, tocca partire condividendo l’assunto di base di Baricco, un dato di fatto ormai ripetuto più volte: le “menzogne”, ovvero le coscienti manipolazioni della realtà, sono sempre esistite, nel dibattito pubblico, nella politica internazionale (Colin Powell che agita una fialetta bianca all’Onu per accusare Saddam Hussein) e perfino nelle storie sportive (Lance Armstrong non vinse perché tornato eroicamente dopo il cancro, ma perché si dopava). E questo è pacifico.

 

Il fatto sarà sempre accompagnato dalla narrazione: ciò non toglie che i due elementi si possano, e a volte si debbano, separare

La novità – perché lo stesso Baricco concede, con curiosa contraddizione, che ci sia una novità – è che la “narrazione dominante” oggi non è più il prodotto delle élites. Molti altri producono “verità” e dunque le élites, prese dal panico per la perdita di potere e di controllo, gridano alla “post-verità” per etichettare in modo negativo fenomeni inediti. Già il caso dei vaccini dovrebbe farci dubitare che le “verità alternative” siano davvero equivalenti alle altre, ma su questo torniamo tra poco.

 

Quello che è cambiato, in realtà – prosegue Baricco – è il nostro rapporto con la verità. Lo scrittore elenca quindi “alcune cose che abbiamo scoperto di recente” in proposito, tanto ben scritte quanto, purtroppo, discutibili.

 

 Il genitore che decidesse di non vaccinare il proprio figlio perché la Rete presenta "verità alternative" farebbe una scelta senz'altro sciocca

La prima: la verità non è un punto fermo, un’istantanea, ma “una sequenza di fotogrammi in cui qualsiasi fotogramma, preso di per sé, non è vero né falso”. Questo decostruzionismo spinto è teoricamente affascinante, ma in concreto inutilizzabile. Se ci limitiamo al campo dell’informazione, può essere che il flusso delle informazioni porti a smentire alcune ipotesi iniziali su un fatto, e certo di ogni dato si possono dare più interpretazioni. Ma una robusta serie di dati di fatto meritano, oggi come ieri, l’etichetta di “veri”, mentre un’altrettanto lunga serie quella di “falsi”, chiunque li fornisca. Che i vaccini siano un bene per la salute di tutti; che non ci sia un gigantesco complotto per spruzzare materie chimiche nel cielo per oscuri fini; che Obama non sia nato in Kenya, sono e restano verità, prese come fotogrammi o viste come un film.

 

Nella versione dell’articolo di Baricco pubblicata su The Catcher, il magazine online della scuola Holden, la prima “scoperta” che abbiamo ricordato è illustrata con la celebre sequenza The Horse in Motion di Eadweard Muybridge, del 1878. Una scelta assai appropriata, ma per sostenere il nostro discorso e non il suo. La serie di foto in rapida successione di un cavallo che corre, infatti, venne fatta proprio per rispondere alla domanda se l’animale fosse o meno, in qualche momento della sua corsa, interamente sospeso in aria. In altre parole, per arrivare a una verità, che veniva rivelata da alcuni fotogrammi più rilevanti di altri.

 

La seconda: “è più vera una notizia raccontata bene che una notizia esatta raccontata male”. Questa “novità” è ugualmente rischiosa e di dubbia consistenza. La storia della ragazza che aveva chiamato 23 ospedali per un’interruzione di gravidanza era una vicenda perfetta per fornire frecce all’arco di molti opinionisti, ma resta falsa. Il fact-checking, questo nuovo ingresso nel mondo del giornalismo, serve proprio a verificare il grado di realtà nelle storie raccontate bene, o nelle affermazioni troppo perentorie del mondo politico. Sarà meno affascinante, farà meno presa sui lettori, resterà magari meno diffuso. Ma bisogna avere l’umiltà di dire che quanto è più diffuso e “conosciuto” potrebbe benissimo essere sbagliato. Il nostro atteggiamento verso le notizie raccontate bene dovrebbe essere quello di Cartesio, che invitava a tenere “quasi per falso tutto ciò che fosse soltanto verosimile”.

 

La terza novità: la “narrazione” è legata in modo inestricabile ai “fatti”, “tutto ciò che è reale – potremmo dire vero – è composto di fatti e narrazione”. Su questo si potrebbe anche essere d’accordo, perché ogni fatto viene per forza di cose presentato in un modo socialmente, culturalmente, ideologicamente orientato. Il principe Filippo, durante la recessione britannica del 1981, commentò: “Tutti dicevano di volere più tempo libero. Ora si lamentano di essere disoccupati”, una plastica rappresentazione del fatto che anche un evento preoccupante come l’alta disoccupazione possa essere l’occasione per una battuta di spirito. Resta però che oggi più di un italiano su dieci cerca lavoro e non lo trova: un fatto che si può raccontare in molti modi, il più appropriato dei quali resta quello che lo vede come un problema. Anche in questo caso, insomma, non possiamo aver paura di fare classifiche, di assegnare giudizi di valore, di riconoscere che alcune narrazioni sono più deformanti e sbagliate di altre.

 

Che la verità e i fatti siano difficili da raggiungere dietro la loro narrazione, poi, non toglie che i fatti esistano. Guardiamo alla disciplina che si occupa più seriamente di ricostruire gli eventi, la storia: negli anni Settanta, a partire dal saggio di Hayden White Metahistory, si discusse a lungo se la storia non fosse altro che una costruzione verbale e retorica, ammantata di un alone di “autorità”. Ma come rispose, tra gli altri, Carlo Ginzburg, queste speculazioni – oltre a portare a conclusioni poco interessanti: bisogna smettere di fare storia? – dimenticavano che la verità non va intesa come un dato scontato, immediatamente disponibile, ma come il faticoso premio di un lungo processo di analisi e confronto delle fonti, di un’applicazione rigorosa del metodo critico. Il fatto sarà anche sempre accompagnato dalla narrazione: ciò non toglie che i due elementi si possano, e a volte si debbano, separare.

 

La quarta scoperta di Baricco, “regalino della rivoluzione digitale” è che la verità fosse, un tempo, il prodotto di “una certa élite”, mentre oggi non più. Si sente qui l’eco di uno degli assunti principali del suo saggio sui Barbari, che dice più o meno la stessa cosa nel campo della cultura. Il problema è: di quale élite stiamo parlando? L’aspetto che Baricco dimentica è che chiunque fornisce la verità acquista potere, diventa élite. Oggi i produttori sono in parte cambiati rispetto al passato, e quella “certa élite” è stata in parte scalzata; ma la novità che cambino o si allarghino le sue fila non cancella l’intrinseco potere di chi possiede e diffonde le informazioni, chiunque esso sia.

 

Dalle quattro “cose che abbiamo scoperto” – ma forse no – discendono poi conclusioni sorprendenti. Il fatto, ad esempio, che questa non sia “un’epoca per specialisti”. Ora, se c’è una caratteristica propria del nostro tempo è l’esatto opposto, ovvero il trionfo dello specialismo. La scienza e la tecnica, ma anche le materie umanistiche, si sono espanse e sono praticate in un modo vertiginosamente più ampio rispetto a qualche secolo fa. Il mondo è diventato così complicato da far scomparire, per esempio, le figure davvero esperte in più di una materia.

 

Non a caso, Baricco fa l’unico esempio del giornalismo, ovvero quella che, tra tutte le attività intellettuali, ha meno bisogno di conoscenze tecniche e specialistiche che non siano la padronanza della lingua italiana (e a volte nemmeno quella è necessaria). Ci vogliono, certo, anni di pratica per arrivare a essere buoni giornalisti, ma mentre il mio compagno di classe ora ingegnere può senz’altro scrivere un articolo interessante al primo colpo, sarebbe assai difficile per me progettare un ponte.

 

Da dove nasce l’equivoco di Baricco? Si potrebbe dire che nasce da un problema di lenti: con gli stessi occhiali, lo scrittore prende un’analisi non certo nuova – gli intellettuali hanno perso il loro ruolo nella società – ci aggiunge la sua personale convinzione – questo è un bene – e lo appiccica a un ambito diverso – quello del discorso politico e, a seguire, dell’informazione.

 

Le cose che sono cambiate, infatti, ci sono eccome. Tutto sta nel capire dove sono cambiate, e nel non applicare la nozione di “post-verità” a campi che non la riguardano. Il fatto che la verità sia oggi a volte sovrastata da un assordante rumore di fondo, che quindi si sprechino tempo e energie a discutere se davvero i vaccini causino l’autismo, è in effetti il frutto di modifiche profonde nel modo in cui parlano i nostri politici e noi parliamo di politica. Se ci limitiamo a questo campo, il concetto funziona benissimo.

 

Con la fine delle ideologie, è diventato meno frequente (non è scomparso) che si giustifichino le prese di posizione politiche in base a convinzioni ideologiche, in quanto tali discutibili e a priori: le argomentazioni sono sempre fatte risalire al “lo dicono i numeri”, “questi sono i fatti”. In altre parole, i politici devono dimostrare che quanto propongono sia l’unica possibile soluzione. Così, il politico di destra non dice più di essere contro l’immigrazione perché altrimenti saranno “fiumi di sangue”, come nel famoso discorso di Enoch Powell, ma perché “ci costano troppo” e le nostre risorse sono oggettivamente insufficienti ad accoglierli. A margine: questo è un atteggiamento che Norberto Bobbio aveva già liquidato in una noterella di Destra e sinistra come la “solita illusione tecnocratica”. Anche la crisi economica ha fatto il suo: la politica, e con lei l’opinione pubblica, ha dovuto occuparsi sempre di più e in modo sempre più approfondito dell’economia, con il conseguente aumento dei numeri nei nostri discorsi. Ma questo, lo ribadiamo, non significa che tutti coloro che ne parlano producano verità, in altre parole che ne capiscano.

 

Le "menzogne", ovvero le coscienti manipolazioni della realtà sono sempre esistite, e questo è pacifico. Ma qui c'è una novità

Il campo di battaglia della politica, quindi, sono diventati i fatti stessi, o la verità se si vuole. E dunque, se una parte politica non ha fatti per appoggiare le proprie affermazioni, se li crea. Non fa grande differenza che li inventi sul momento o li tragga da qualche sottobosco del web: sempre menzogne restano. Trump, per dimostrare che la ripresa economica negli anni di Obama non esisteva, aveva bisogno di un numero: e così ha fatto riferimento a sgangherate stime secondo cui la disoccupazione fosse arrivata fino al 40 per cento. È un artificio retorico, un nuovo modo di dire le cose, non una rivoluzione copernicana; un cambiamento nel modo di esprimersi e di discutere più che una novità epistemologica; insomma, è la post-truth politics.

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