Foto di Christopher Dombres via Flickr

Perché pensiamo sempre che dietro a ogni fatto ci sia un complotto

Umberto Minopoli

Non solo FdB: in democrazia ci sentiamo tutti vittime di qualcosa

Secondo Gérald Bronner, sociologo francese, dobbiamo convincerci: “Vivere in una democrazia stabile, dove sono garantite libertà e sicurezza, comporta (paradossalmente) mettersi alla ricerca di un modo per apparire vittima di qualcosa”. Lo stato di vittima, aggiunge citando Guillame Erner, “è diventato invidiabile nello spazio democratico”: attraverso il dubbio, su ogni cosa e ogni argomento, si ottiene lo stato di vittima, generalmente, di “potenti che complottano contro la verità”. Le teorie del complotto, per questo, stanno avendo un “ritorno di massa nello spazio pubblico”: un universo paranoico, conclude Bronner, in cui “nessuna cosa deve sembrare quella che è”, tutto deve apparire collegato e niente deve apparire “succedere per caso”. Un immaginario cospirazionista mette in scena, ancora Bronner, “l’idea che, su ogni evento sensibile, ci siano forze che ci impediscono di conoscere il mondo, ci nascondono le cose”: diffidare si insinua dappertutto. Ed è la premessa del desiderio di vittima: i miti del complotto consentono l’effetto di disvelamento: ci sentiamo appagati, diamo coerenza ai fatti, troviamo relazioni nelle cose, ci sembra di passare dall’oscurità alla chiarezza.

       

Questo meccanismo psicologico è amplificato nelle nostre democrazie tecnologiche: internet e l’informazione affluente delle nostre società democratiche dilatano, enormemente, questa psicologia del complotto, miti che Bronner definisce “mostri marini dell’immaginario umano”. E che, a suo avviso, alimentano il mito populista. Il complottismo, dobbiamo rassegnarci dunque, è una figura, della mente e delle costruzioni intellettuali della comunicazione moderna, che non regredisce con la modernità. Anzi. E’ una sorta di sfera di Pascal: più cresce e diventa complessa la sfera dell’informazione, la conoscenza, la folla delle “conquiste cognitive”, più cresce la sfera dell’inquietudine, dell’ignoranza, della sensazione di vittimismo: “Il lato oscuro della nostra razionalità”. Questa brillante descrizione di Bronner, ancor più che alla tosta e illuministica società francese, sembra attagliarsi perfettamente all’imbrogliata e informe condizione italiana e alla nebbiosità della nostra politica e dello sfasato sistema informativo nazionale.

    

Se c’è una cosa che impressiona (e, ormai, annoia e stanca) nell’informazione italiana è la dilatazione del ricorso al complottismo: tecnica di scrittura, figura retorica che avvolge ogni argomento, meta ricercata di ogni inchiesta, spiegazione di ogni fatto. Potremmo definirlo la generalizzazione, nel mondo dell’informazione, del commento, del talk televisivo e della pubblicistica politica del “modello Report”: descrivere ogni fatto come conflitto tra una verità ufficiale che esibisce l’apparenza dell’ingenuità e l’inchiesta disvelatrice che rivela, dietro ogni fatto, gli oscuri legami di gruppi e individui forti. Dietro ogni vicenda italiana, dalla storia di una banca di provincia a un disastro industriale, ci “deve essere” un intrigo, una trama, una commistione di interessi fraudolenta da scoprire. E’ un tic che non è solo un’ossessione maniacale, un modo di pensare, un’abitudine e tratto del comportamento pubblico. Attenzione. E’ molto di più. E’ un atteggiamento che si è strutturato in catene editoriali, in imprese commerciali della comunicazione, in “industria culturale”, si definiva un tempo in sociologia.

    

Oggi poi, nella contingenza italiana, questa struttura dell’informazione appare, particolarmente, adatta alla presa dell’immaginario populista e della sua “demogogia cognitiva”. Usiamo ancora Bronner: denudare i complotti, svelare i poteri forti dietro ogni ingenua oggettività, denunciare i potenti che insabbiano, è servire il popolo. Si incendia un deposito alle porte di Roma? Al “popolo” non spiegano le cause, il perché, cosa è successo. No. Si cerca di trovare lo scandalo di una nefandezza. L’obiettivo è trovare il filo di un sospetto, il segno di un malaffare, le mafie. In ogni fatto c’è una deviazione. Deve esserci. Il fine di informare è diffondere un dubbio, un sospetto, una verità nascosta e cospirazionista. Un banale incendio di un deposito di rifiuti, nella città simbolo oggi del “rifiuto affluente”, deve essere descritto con allusioni a catastrofi incombenti e ricorsi alla retorica del complotto: il traffico mafioso dell’immondizia pericolosa, l’amianto, gli enormi interessi che cospirano contro la salute, l’allarme criminogeno su tecniche volute di avvelenamento collettivo. Sempre la stessa retorica: come sulle scie chimiche, i vaccini, le onde elettromagnetiche, gli Ogm. Dietro ogni emozione c’è il potere forte che cospira comportamenti omicidi. Una nenia che, programmaticamente, diffonde allarmi catastrofici, spaventa, allibisce, deprime la gente. Ovvio che si alimenta il brodo di coltura del virus della stolidità e del ciarlatanesimo ignorante. E’ così che si sta ammazzando la reputazione del paese, lo si sta riducendo a una variante macchiettistica dell’Europa: un paese di 60 milioni di abitanti diviso in casta e anticasta. Prendete un cavaliere bianco dell’anticasta: Ferruccio de Bortoli. E prendete Banca Etruria. E’ un piccolo caso di una piccola banca di provincia, una profana storia di piccola bancarotta locale. Insieme ad altre piccole banche fallite, si è intervenuti, tutti d’accordo, per offrire un parziale risarcimento a piccoli risparmiatori, pensionati, massaie, operai malversati dalle politiche fallimentari dei manager delle banche. Tutto ovvio, normale, scontato. Non da noi. Nella piccola banca operava il padre di un ministro. Come non far scattare il refrain del complotto? La banca di Arezzo avrebbe dovuto disvelare la cospirazione pour excellence: massonica e capitalista avvolta nelle stanze dell’inner circle di un potere politico familistico. Ghiottoneria per l’establishment informativo antirenziano. E’ tutto franato. La Banca Etruria è stata rivoltata come un calzino. Del ministro, massonico e complottardo, cittadino del luogo in cui operava la banca, si è accertato la titolarità di un migliaio di euro di azioni azzerato dal decreto del governo sulla Banca. Che non ha salvato nessuno, nessun manager, nessun ricco azionista. Né il padre del ministro né altri risultano indagati di alcunché. Il decreto di salvataggio del governo ha riguardato solo un pugno di piccoli risparmiatori aggirati. Un atto dovuto che nessuno, all’epoca ha contestato. Insomma: il nulla. Invece De Bortoli getta lì un’insinuazione che allude alla Banca Etruria come fosse lo scandalo della Banca Romana del 1893. E si specula, persino, su cose non avvenute, acquisizioni che non ci sono state: fuffa, voci, velleità, sentito dire. Una schifezza.