Marina Rebeka e Carmela Remigio in un momento della “Maria Stuarda” in scena in questi giorni all’Opera di Roma

Il nichilista dell'opera

Marina Valensise

Donizetti, da una vita di gioie e di lutti il genio nel sorriso o nella tragedia. “Maria Stuarda” a Roma

Urge una nuova biografia di Donizetti, dopo quella dottissima dell’americano William Ashbrook apparsa più di trent’anni fa in due volumi (Edt 1986). I tempi sembrano propizi. A Roma, al Teatro dell’Opera, va in scena Maria Stuarda, tragedia lirica in due atti del 1834 su libretto di Giuseppe Bardari, con la direzione di Paolo Arrivabeni, la regia di Andrea De Rosa, che ha già messo in scena la tragedia ispiratrice di Schiller, e due stelle del belcanto come Marina Rebeka e Carmela Remigio. A Londra, tra i finalisti degli International Opera Awards figura nella sezione “opera riscoperta” l’Olivo e Pasquale, melodramma giocoso del 1827 su libretto di Jacopo Ferretti, riproposto nella recente produzione per il Festival Donizetti di Bergamo, diretto da Francesco Micheli, con regia dell’Opera Alchemica, alias due siciliani sulfurei come Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi, e l’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala diretta da Federico Maria Sardelli (dvd disponibile).

 

Era nato poverissimo in un tugurio “ov’ombra di luce mai penetrò”, quinto di sei figli di un padre gretto e insopportabile

Tempi dunque ultra propizi. Metterei subito in cantiere una sceneggiatura per un biopic in 3D e stereofonia, con musica, viaggi, amori, gioie, lutti, morti e malattie nell’Italia del primo Ottocento, che sarà pure stata solo un’espressione geografica, come diceva Metternich, ma pullulante di geni. Urge riscoprire la romanzesca vita di Gaetano Donizetti, compositore nato austriaco nel 1797 a Bergamo, esploso a Roma a 24 anni con la Zoraide di Granata, consacrato a Napoli nei teatri dei Borbone per trionfare a Milano con l’Anna Bolena nel 1830, e poi a Londra e a Parigi, prima di imporsi alla Scala, dove fu a lungo snobbato, farsi arruolare dalla corte imperiale di Vienna e tornare a morire nel natio borgo a 50 anni, vedovo disperato e solo, completamente paralizzato e semi rincitrullito dopo lunga e lugubre degenza in un ospedale di Ivry, alle porte di Parigi, per un male atroce e infamante come la sifilide.

 

Simbolo della miseria premiata dal genio, assistita dalla virtù ma non dalla fortuna, Donizetti visse un romanzo d’appendice dove il comico si unisce al tragico e irradia su tutto la sua luce beffarda. Era nato poverissimo in un tugurio interrato nel Borgo Canale “ov’ombra di luce mai penetrò”, quinto di sei figli di un padre gretto e insopportabile, tessitore di seta o forse sarto, che finirà custode e portiere al Monte dei Paschi, senza mai smettere di affliggere e sminuire quel figlio prodigio, aitante, generoso e di buon carattere che così ricorderà il suo dramma intimo: “E siccome gufo presi il mio volo, portando a me steso or tristo or felice presagio, non incoraggiato dal mio povero padre che ripeteami sempre, è impossibile che tu scriva, che tu vada a Napoli, che tu vada a Vienna”.

 

Sin da piccolo, aveva altro a cui pensare. Educato alla musica dallo zio e poi da un pedagogo bavarese lungimirante come Johann Simon Mayr, maestro di cappella a Santa Maria Maggiore, Donizetti frequentò le Lezioni caritatevoli di canto e cembalo, e pur avendo “la voce difettosa”, continuò a ricevere protezione e incoraggiamento dal mentore bavarese, che prima di passargli un contratto col Teatro Argentina di Roma, gli fece comporre certe operine presaghe di gloria come Il piccolo compositore di musica, libretto molto autobiografico per una farsa di fine anno, dove il protagonista torna a scuola durante le vacanze per comporre un’aria in pace, e ai compagni che lo interrompono risponde: “Vasta ho la mente, rapido l’ingegno, / Pronta la fantasia, e nel comporre / Un fulmine son io”.

 

Scrisse più di settanta opere e vari capolavori a tempo di record. Contrasse il primo stadio della sifilide poco prima di sposarsi

E un vero fulmine sarà Donizetti compositore, che scrisse più di settanta opere e vari capolavori a tempo di record. Mayr, infatti non solo era un grande conoscitore delle musiche di Haydn, Mozart e Beethoven, ma era anche operista. Sotto la sua guida, Donizetti compone quindici quartetti per archi, tra il 1817 e il 1821, e impara a scrivere velocissimamente. A Bergamo, come in ogni città d’Italia, si coltivava l’opera. E se esistevano solo due teatri, il Riccardi e il Sociale, circolavano tanti di quei tenori, tutti aureolati di ricchezza e prestigio, da invogliare i talenti in cerca di riscatto.

Spinto da Mayr, a diciotto anni Donizetti parte per Bologna per studiare con don Stanislao Mattei, già maestro di Gioachino Rossini. Dopo varie false partenze, Mayr gli propina la prima scrittura come librettista al Teatro Argentina. A 24 anni, munito di passaporto, parte alla volta di Roma, dove conoscerà Jacopo Ferretti, e gli amici Vasselli, giuristi legati al Vaticano, con casa in via delle Muratte, che diventeranno la sua famiglia, quando cinque anni dopo Gaetano ne impalmerà la sorella.

 

Inizia allora per lui una vita nomade, tra Roma e Napoli, Palermo, dove patisce lo stato comatoso del locale teatro e fugge a gambe levate. Nel 1828, Le nozze con Virginia Vasselli, in Santa Maria in Via, sono un giorno di luce, nonostante o a causa dell’assenza del padre bifolco. “Capisco che potevate offendervi del non avervi partecipato il matrimonio, ma anch’io credetti farvi risparmiar spese… ma già le mie delicatezze non son capite”. Virginia è bella, ha diciott’anni, ma salute precaria e come lei il marito che cade in preda a convulsioni. Il primo figlio, partorito a Roma settimino nel luglio 1829, muore in fasce: “Non se ne parli più”, scrive Donizetti al padre: “Aveva una vena larghissima sopra la testa, che gli toccava da un’orecchia all’altra attraversando sopra il cervello, il fatto sta che dopo sette giorni di vita, gli cominciarono le convulsioni storceva gli occhi, non mangiava più, e dopo poca vita tirata a stenti nell’imboccarci con cucchiaro il latte, stette due giorni a bocca chiusa e morì: meglio così, che avere un ragazzo guasto da malattia, poiché dicono che se guariva, per lo meno sarebbe rimasto storpio”.

 

La lite furibonda tra le prime due interpreti di Maria Stuarda e di Elisabetta, che prese come dirette a lei le offese del libretto

Ashbrook e i medici da lui consultati hanno diagnosticato che Donizetti contrasse il primo stadio dell’infezione venerea poco prima di sposarsi, e la trasmise subito alla moglie, come dimostra il parto prematuro del bimbo malformato. Ma intanto l’impresario Barbaja incalza e il lavoro preme. Direttore dei Reali Teatri di Napoli fino al 1838, Donizetti scrive, compone, mette in scena al San Carlo. Mentre prova l’Imelda de’ Lambertazzi, firma col Carcano di Milano. Gli basterà un mese per l’Anna Bolena, composta a Blevio sul Lago di Como, in casa di Giuditta Pasta, tra il 10 novembre e il 10 dicembre 1830, e rappresentata il 26 al Carcano di Milano. Il trionfo di quella tragedia con finale catarsi dei due amanti che anelano all’aldilà per sottrarsi al dolore, sarà una svolta. Due anni dopo, altro successo con L’elisir d’amore, opera buffa scritta in quindici giorni per il Teatro alla Canobbiana, da 185 anni in repertorio. Nel 1833, nuovo contratto col duca Visconti di Modrone, per la Scala. La Lucrezia Borgia verrà bollata come “poco men che mediocre”, e patirà le bizze della primadonna francese, che impone un torrente di colorature a fine dramma, pur essendo una madre schiacciata dal dolore davanti al figlio cadavere, morto a causa sua. Nel 1834, tornato con Virginia a Napoli, Donizetti scrive Maria Stuarda, altro parto veloce, ma dall’esito controverso. Uscito dal radar Felice Romani, il libretto viene affidato a un esordiente calabrese diciassettenne. Il poveretto, Giuseppe Bardari, studente in Legge, viene convocato dal censore reale per modificare il testo, dopo lo scontro clamoroso tra Giuseppina Ronzi De Begnis (Maria Stuarda) e Anna Del Sere (Elisabetta), che se le diedero di santa ragione durante la prova con l’orchestra. Nell’invettiva alla fine del primo atto dove Maria Stuarda insulta la cugina Elisabetta d’Inghilterra, che la degna di una visita in carcere, la Ronzi era stata talmente convincente che la Del Sere prese le sue parole come un’offesa personale. “Figlia impura di Bolena / Parli tu di disonore? / Meretrice – indegna, oscena, / In te cada il mio rossore. / Profanato è il soglio inglese: / Vil bastarda, dal tuo piè”.

 

Le due finirono per accapigliarsi, con pugni e morsi. Elisabetta era partita all’attacco. Maria Stuarda, colpita inaspettatamente, perse l’equilibrio, cadde per terra, ma subito si rialzò per scagliarsi con tutta la sua mole generosa sull’avversaria ben più smilza, la quale svenne, e dovette essere trasportata a casa. “La lite delle donne la sai”, raccontò Donizetti al librettista, “e solo non so se sai che la Ronzi sparlando di me e credendomi lungi, diceva: Donizetti protegge quella p… della Del Sere, e io risposi inaspettato: Io non proteggo alcuna di voi, ma p… erano quelle due, e due p… siete voi… Si persuase, o s’avvilì, s’acquietò… non più parlò, si seguitò, ella cantò, poi non s’andò”.

 

Il baritono Bruno Taddia accosterà Donizetti a Mahler. Il regista De Rosa e la dimensione leopardiana del compositore

Proibita per l’intervento personale del re, forse su pressione della moglie Maria Cristina, discendente in dodicesimo grado dalla regina cattolica, venerata in Italia come martire della fede, l’opera fu riadattata a un nuovo testo, il Buondelmonte, per il San Carlo prima di venir riproposta alla Scala dalla Malibran, incurante di ogni censura. “Io son qui per la musica e non per garantire la poesia alle autorità”, si difese Donizetti, osteggiato dall’oscurantismo napoletano, e però deciso a offrire drammi a tinte forti e alta intensità.

 

Ecco allora, che oltre la musica, urge riscoprire i sogni, i tormenti, i pensieri di Donizetti, il più fecondo, gioioso, versatile degli operisti italiani, che fu romantico in regola coi tempi, epicureo vitalista, amante seriale e generoso, anche quando la vita gli fu agra, piena di angherie, lutti, disperazione, tre figli morti in fasce, l’adorata moglie di colera, dopo nove anni di matrimonio, e funestata da una vecchiaia in perfetta solitudine a Parigi, in balia del nipote cretino e profittatore, mentre la sifilide l’assediava appannandone la mente, privandolo della parola, e condannandolo alla paralisi. E però Donizetti fu anche un moderno postromantico, capace di anticipare idee che ci sorprendono, fu un protonichilista come lo fu Leopardi, il poeta della Ginestra che visse a Napoli (dove morì nel 1837) negli stessi anni, e forse conobbe la sua musica e forse l’incrociò nelle sale del caffé Gambrinus.

 

L’idea di Donizetti nichilista arrovella Bruno Taddia, il baritono che ha cantato la parte di Olivo, padre egoico e odioso che contrasta i sentimenti della figlia, nella recente produzione selezionata per gli International Opera Awards. Nel suo prossimo recital (in programma il 29 marzo all’auditorium di Tor Vergata, con Andrea Corazziari al piano) proporrà un confronto tra le romanze di Donizetti e l’ultima composizione vocale di Gustav Mahler, Der Abschied, che chiude il Canto della Terra. “Lentamente nella produzione di Donizetti, specie a partire dal 1837, anno terribile in cui perde moglie e figlio, si fa strada l’idea che il mondo sia solo l’esistenza del divenire, le cose sono caduche e nessun assoluto è possibile. La morte come salvezza eterna, tipica dell’estetica romantica, si tramuta in nullità delle cose. E’ questa l’essenza dell’ultimo Donizetti. E infatti cosa dice alla fine la protagonista del Roberto Devereux? ‘Non regno, non vivo’. Siamo all’annichilimento dell’eroina principale, priva ormai dell’apoteosi della morte, presente nell’Anna Bolena o in Maria Stuarda… Associare Donizetti a Mahler vuol dire riconoscere anche in lui la fine dell’assoluto, la morte della tradizione. Mahler segna la fine della tonalità: la musica si fa malata, il mondo crolla, però esiste una speranza finale, in Der Abschied l’amico che torna dice: sto tornando per morire nel luogo della mia origine, dove l’erba sarà sempre verde… Cosa che manca nelle romanze di Donizetti dove il protagonista della Canzone moresca, per esempio, cerca invano l’amata fuggita: ‘Il mio grido getto ai venti, e il suon dei miei lamenti, fino ad ella mai non giunge, la mia donna, l’hai tu veduta?’. E l’amata fuggita è il luogo in cui le contraddizioni si risolvono. Rappresenta il crollo dei valori della tradizione nella quale era possibile una salvezza”.

 

L’idea di un Donizetti protonichilista seduce anche Andrea De Rosa, che ha diretto Bruno Taddia nel Don Pasquale al Ravenna Festival. “E’ vero, c’è qualcosa di profondamente nichilista in Donizetti”, ammette il regista campano che ha esordito con Mario Martone e da anni persegue la sua ricerca. “Niente di più comico dell’infelicità umana”, diceva Samuel Beckett. E il suo è un teatro nichilista in quanto comico, che mostra il nonsense di tutto. Donizetti, a volte, con una sua mitezza tutta italiana sembra portarci nello stesso territorio. Nel Don Pasquale c’è una scena veramente straziante nella sua apparente comicità: quando il protagonista, nel secondo atto, compare di fronte a Norina che lo sbeffeggia, lo maltratta, e alla fine lo schiaffeggia. E’ uno schiaffo terribile, umiliante e commovente al tempo tesso, ché mette il vecchio Don Pasquale di fronte a un cinismo e a una cattiveria, di cui lui, che pure ha sbagliato tutto, paga un prezzo eccessivo, e viene punito senza pietà”. Anche De Rosa è incline a riconoscere una dimensione leopardiana in Donizetti: “La forza più grande è la gioia di vivere: esiste una vitalità nella poesia che si scontra di continuo con la constatazione dell’inutilità, del nonsenso, della vanità del tutto. Ma la vanita non è mai una premessa: viene sbattuta in faccia solo alla fine, proprio perché quanto più ami la vita, tanto più questa constatazione diventa dolorosa. L’amore per la vita porta alla constatazione della vanità delle cose”.

 

Quanto al conflitto passionale tra le due regine della Maria Stuarda, più che il nichilismo è in gioco una dimensione tragica. “Il dibattersi senza scampo tra passioni personali e ragioni di stato è la battaglia che si combatte sin dai tempi della tragedia greca”, spiega De Rosa, che da anni lotta contro la separazione tra teatro di prosa e opera lirica. Così, per la regia al Costanzi, ripropone la stessa scatola rossa, usata per il dramma di Schiller al Mercadante e al San Carlo: nel primo atto è la sala del consiglio di Elisabetta, che lascia apparire il coro come un ritratto fiammingo, poi diventa la prigione di Maria con una striscia di cielo sulla foresta, mentre alla fine il palcoscenico è vuoto, e solo all’ultimo appare il patibolo dove Maria, dopo la vestizione in abito da sposa e lunghi guanti di seta rossi, segno della passione, viene giustiziata dal boia.

Di più su questi argomenti: