Auguri a tutti i papà, razza in via d'estinzione

Luca Del Pozzo

Essere padre è un mestiere difficilissimo, lo sa bene chi lo vive tutti i giorni; e lo è perché “essere padre è innanzitutto essere servitore della vita e della crescita”, come ebbe a dire Benedetto XVI. Padri si diventa, non si nasce.

Ci sono poche cose nella vita di un uomo in grado di darti una gioia piena, profonda e pura come vedere tuo figlio che non appena metti piede a casa si precipita come un furetto per darti, tutto soddisfatto, il regalino preparato a scuola. Per questo non mi arrendo. E quindi oggi, 19 marzo, leverò in alto il calice per me e per tutti i miei “colleghi”. Perché oggi, signori miei, è san Giuseppe, festa del Papà. Rigorosamente con la p maiuscola. Per richiamare l’attenzione, smuovere le coscienze, sensibilizzare. Insomma, provare a fare qualcosa. Noi padri infatti, parafrasando Giorgio Gaber, siamo sempre più una razza in via di estinzione. Al punto che nella nostra opulenta ed evoluta società, come per altro è stato ampiamente dimostrato da fior di studiosi, ormai a stento si trovano tracce della figura paterna.

 

Prima il ’68 e la rivolta contro il principio di autorità, poi il femminismo, poi la premiata ditta Freud&Co, e oggi il tentativo di mandare in soffitta la famiglia cosiddetta tradizionale (ove tradizionale, manco a dirlo, suona dispregiativo), in ossequio alla dittatura gender (a proposito: chi non l’ha già fatto legga ritagli e conservi la straordinaria testimonianza di John Waters pubblicata sul Foglio del 6 marzo scorso). Risultato: il padre che non conta più nulla, ridotto al massimo al rango di amico, in nome e per conto di una ideologia culturale secondo cui l’uomo, fin da piccolo, ha diritto di decidere da solo come meglio vivere, e stabilire cosa è bene e cosa è male, e vivere della sua libertà in modo totalmente indipendente e autonomo da ogni riferimento valoriale che non siano i suoi desideri. Il paradosso (solo apparente) è che questa antropologia, nel mentre abbatte la figura paterna col piccone legislativo e/o giudiziario (per info rivolgersi ai giudici di Trento e Firenze) imponendo nuovi modelli e costumi, rivendica allo stesso tempo il diritto alla genitorialità. In una intervista al Foglio di qualche anno fa, l’allora arcivescovo di Bologna, card. Caffarra, aveva colto lucidamente la questione: “Negando la connessione inscindibile tra la sessualità coniugale e la procreazione, cioè negando l’insegnamento della Humanae Vitae, si è aperta la strada alla reciproca sconnessione fra la procreazione e la sessualità coniugale: from sex without babies to babies without sex..., e si è gradualmente costruita l’ideologia che chiunque può avere un figlio. Il single uomo o donna, l’omosessuale, magari surrogando la maternità. Quindi coerentemente si è passati dall’idea del figlio atteso come un dono al figlio programmato come un diritto: si dice che esiste il diritto avere un figlio...Questo è incredibile. Io ho diritto ad avere delle cose, non le persone”.

 

E’ il trionfo dell’etica dei diritti contrapposta a quella dei doveri (verso Dio, il prossimo e se stessi), a sua volta figlia di un laicismo virulento e superbamente in-dipendente, che ha divelto le radici cristiane della società. “All’ascesa a Dio – scriveva con profetica lungimiranza Augusto Del Noce oltre mezzo secolo fa – si sostituisce l’idea della conquista del mondo, ovvero l’affermazione del diritto che il singolo soggetto ha sul mondo. Diritto che non ha limiti, perché, chiamato al mondo senza il suo volere, egli sente di aver diritto, quasi a compenso di questa chiamata, a una soddisfazione infinita nel mondo stesso”. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. E forse non è un caso se qua e là, sia pure ancora in netta minoranza, cominciano a fare capolino commenti e analisi controcorrente che suonano come una decisa critica (e in alcuni casi autocritica) di quell’apparato di pensiero che di fatto ha seppellito il ruolo paterno e scardinato la famiglia.

 

Quella che un tempo era la parola d’ordine, il mitico “proibito proibire”, ora sembra non essere più così scontata. E, anzi, i più attenti osservatori sottolineano l’importanza di saper dire “no”, di non essere semplicemente un “amico” dei figli. Insomma, di tornare a fare il padre: magari moderno quanto si vuole, ma che è e resta il padre. Ci sarà pure un motivo se il quarto comandamento dice “Onora tuo padre e tua madre”, o no? Essere padre è un mestiere difficilissimo, lo sa bene chi lo vive tutti i giorni; e lo è perché “essere padre è innanzitutto essere servitore della vita e della crescita”, come ebbe a dire Benedetto XVI, aggravato dal fatto che mentre nella donna è inscritta la maternità, la paternità non è affatto un attributo naturale dell’uomo: padri si diventa, non si nasce.

 

Sarebbe allora auspicabile che anche la società, in tutte le sue articolazioni, restituisse alla figura paterna autorevolezza e status, e la smettesse di considerare il padre un ente inutile da rottamare o, nel migliore dei casi, un suppellettile affettivo. Ne va del futuro dei nostri figli, il che vuol dire del futuro del paese. Altrimenti continueremo a crescere ragazzi senza spina dorsale, fragili, capaci di suicidarsi per un brutto voto o una delusione affettiva, o di uccidere senza pietà quando non ottengono quello che vogliono perché nessuno gli ha mai spiegato come funziona il mondo. Diciamo le cose come stanno: sulla scia del mito del buon selvaggio e di una pseudo cultura in nome della quale i figli vanno cresciuti senza divieti di sorta e senza vincoli alla loro libera espressione, abbiamo cresciuto e stiamo continuando a crescere mostri di egoismo, ragazzi fragili, facilmente influenzabili e soprattutto, eternamente fanciulli. Quando invece crescere significa confrontarsi con la realtà, che spesso e volentieri è ben diversa da come uno se l’immagina. La vita è bella proprio perché in essa c’è tutto, gioia e dolore, successo e fallimento, allegria e tristezza. E prima inizia il confronto con la vita vera, meglio è. Ecco perché il padre ha una funzione di straordinaria importanza per i figli, rappresentando ai loro occhi la porta d’accesso al mondo reale. A volte larga, altre volte necessariamente stretta. Ma guai a chiuderla. 

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