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“Almeno credo”, quello che non ti aspetti da tre religioni in un docu-film

Marianna Rizzini

Come cambia il rapporto con il divino raccontato in due documentari. Dal 2007 al 2017: tre gruppi di ex bambini cresciuti e un esperimento

Roma. Dieci anni (2007-2017), tre gruppi di bambini ora ragazzi a Roma, tre scuole di diversa impostazione (una cattolica, una musulmana e una ebraica) e due documentari: uno, del 2007 (“Primo giorno di Dio”, diretto da Gualtero Peirce e prodotto da Beppe Attene) racconta in parallelo l’ingresso in prima elementare e l’incontro dei bimbi con la divinità. L’altro, del 2017 (“Almeno credo”, sempre diretto da Peirce e prodotto da Attene, e presentato da Tv2000 e Cyrano New Media), ritrova gli ex bambini, ora adolescenti, alle prese con l’evoluzione non soltanto del rapporto con un “divino” passato attraverso l’apprendimento scolastico nella scuola religiosa, ma anche con un cambiamento di mentalità magari impensabile in chi ha frequentato un istituto dove il concetto di Dio cattolico, musulmano ed ebreo era onnipresente, ma non impermeabile ai tempi, alle famiglie, alle esperienze, a se stessi. Con flashback ai primi giorni di scuola del 2007, “Almeno credo” è un viaggio alla scoperta (e alla smentita) di un condizionamento presunto (da un testo sacro, da un adulto educatore). Ed è come se il condizionamento, ove presente, prendesse vie traverse.

 

Vedendo, dopo dieci anni, i volti degli ex bambini cresciuti – come in una sorta di “Boyhood”, il film di Richard Linklater che racconta la crescita di un ragazzo e il suo rapporto con i genitori divorziati nell’arco di 12 anni – si resta colpiti dalla profondità dell’elaborazione di pensiero “originale” all’interno di una comunità apparentemente irregimentata. E se il maestro musulmano del 2007 che chiede alla bambina come ci si senta dopo un giorno di digiuno può sembrare al profano un po’ “indottrinante”, nel 2017 si ritrova l’ex bambina religiosa, sì, ma anche desiderosa di “dire la sua” senza che nessuno la piloti (motivo per cui, dice, vorrebbe “fare la giornalista, ma di carta stampata”, perché così potrebbe dare più “sfogo” alle sue idee). E se la maestra cattolica che, nel 2007, chiede al piccolo Pietro quali siano “i vantaggi di una posizione di accoglienza” (risposta del bambino: “Trasferire l’amore”) può dare l’impressione al profano di “inculcare” un concetto di ecumenismo già sconfitto dalla realtà, i suoi ex allievi, nel 2017, insistono sul concetto di “rispetto”, ma senza buonismi: lo ricevi se lo dai, lo dai se lo ricevi, e non ti aspettare che siano tutti buoni, perché nessuno può essere buono al cento per cento e male e bene sono sempre in qualche modo presenti allo stesso tempo (c’è chi scherza: il ragazzo che vuole andare a vivere in Israele per “servire la patria di appartenenza religiosa”, magari è lo stesso che da piccolo non sopportava la kippah). Poi si scopre che, tra chi ha frequentato la stessa scuola, la differenza di vedute sul terrorismo, sulla paura, sul diverso, sull’immigrazione, sulla felicità, sul bene, sul male, sul perdono, sulla colpa, sull’integrazione e sull’autodifesa è magari più ampia di quella che corre tra due ex alunni di religioni diverse.

 

Dovevano rispondere a domande sul “come ti immagini Dio”, i bimbi del 2007, ma nel 2017 li ritroviamo dubbiosi: il “divino” nelle loro vite c’è, ma non è dato per scontato, e la risposta agli interrogativi più complessi su guerre, bombe e identità culturale spiazzano lo spettatore come quelli sull’esistenza di Dio (si va da “perché dovrei dubitare della mia fede se ho avuto una giornata no?” fino a “alcuni fatti nella mia vita mi hanno fatto venire il dubbio che Dio non ci fosse”, e poi: “Cresci con una mentalità cristiana, ebraica, musulmana, ma un giorno ti svegli e se credi o non credi è una cosa personale”, oppure: “A volte credo, a volte no”). E la bimba musulmana che da piccola era terrorizzata in classe, e veniva portata in braccio con tutta la sedia dal maestro, oggi, minuta e determinata, vuole fare la pilota, “perché volare significa essere liberi”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.