Parole del cinema che nascono, invecchiano e spariscono

Mariarosa Mancuso

Modi di dire rispolverati da un libretto appena pubblicato da Lyon Press. “Totally Scripted” è il titolo scelto da Josh Chetwynd per raccontare i vezzi linguistici dei cinematografari e dei teatranti

Nel 1976 Beatrice Straight vinse l’Oscar come migliore attrice non protagonista, in “Quinto potere” di Sidney Lumet. Stava sullo schermo cinque minuti soltanto, nella parte più che ingrata della moglie abbandonata dal marito William Holden per Faye Dunaway. Record assoluto: le candidate di quest’anno nella categoria o sono sempre in scena (come Viola Davis in “Barriere”, mentre il comprimario Denzel Washington è tra i protagonisti che ambiscono alla statuetta) o hanno ruoli piccoli ma non minuscoli, come Naomi Harris in “Moonlight”.


Oggi si dice “Cammeo”, per un’apparizione mordi e fuggi. “Bit part”, si diceva una volta, rubando il termine al teatro: un ruolo così piccolo che consentiva agli attori il necessario per pagare l’affitto e il cibo. Lo rispolvera, con altri modi di dire, un libretto appena pubblicato da Lyon Press. “Totally Scripted” è il titolo scelto da Josh Chetwynd (giornalista del New York Times, poi di Variety, poi di The Hollywood Reporter) per raccontare i vezzi linguistici dei cinematografari e dei teatranti. Entrati nella lingua inglese, e in qualche caso anche usciti, dopo un breve momento di gloria.

 
“Bit part” appunto è uscito, lasciando il posto a cammeo (che insieme alla formula “attore-feticcio” ha funestato per anni le nostre letture in materia di cinema). “Cut to the chase” invece è rimasto, come è rimasto “cliffhanger”. La frase invita ad andare al dunque, che per molti anni al cinema voleva dire “inseguimento”, e ora vuol dire “qualcosa di sostanzioso, che giustifichi il prezzo del biglietto”. Va bene il preambolo, va bene la presentazione del personaggio, va bene mostrare l’ambiente, ma poi qualcosa di appassionante deve pur succedere.

 
“Cliffhanger” è la versione per il cinema di quel che secondo Wilkie Collins - uno che all’epoca sua vendeva più di Charles Dickens - era il segreto del romanzo a puntate: “Falli ridere, falli piangere, ma soprattutto falli aspettare”. Si intende, i lettori. Ed è quel che agli inizi del cinema accadeva in senso proprio, non figurato come sarà poi: l’eroe restava con le mani aggrappate alla roccia, sotto c’era il precipizio, lo spettatore soffriva e godeva. Anche qui uno scrittore fa da pioniere. Fra il 1872 e il 1873 Thomas Hardy pubblicò a puntate “Due occhi azzurri”. La protagonista Elfride ha due corteggiatori, uno dei morosi si ritrova in perigliosa posizione su una scogliera, cominciano a venirgli i dubbi: “Sarà la Morte, ora, a tendermi la mano?”

 
In vista degli Oscar, da assegnarsi la prossima domenica, sarebbe bello avere un “catcall”: fischietto adoperato nei teatri settecenteschi per manifestare dissenso. Uno spiritoso scrittore dell’epoca, Joseph Addison, malignava: “gli attori temendo le critiche ne hanno fatto incetta”. Le parole nascono, invecchiano e spariscono. Certi vizi restano.

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