Jannis Kounellis (foto LaPresse)

L'eredità rivoluzionaria e libera di Kounellis, artista greco “fattosi romano”

Giuseppe Fantasia

E' stato uno dei padri storici dell’Arte Povera, tra gli artisti che più hanno cambiato l’arte contemporanea italiana

Quando scoprì che quella mattina c’erano anche molti italiani fu felice perché – come ci disse in seguito – quella presenza lo faceva stare più al sicuro. Poco meno di un anno fa, eravamo anche noi alla presentazione ufficiale della retrospettiva che gli dedicava la Monnaie di Parigi e lui, Jannis Kounellis – uno dei padri storici dell’Arte Povera, tra gli artisti che più hanno cambiato l’arte contemporanea italiana – in quell’imponente edificio con vista sulla Senna e l’Ile de la Cité era più malinconico del solito, ma molto sicuro di sé, perché, circondato da cotanta grandeur, era felice di esserne protagonista. “Anche se con delle diversità, siamo tutti un po’ francesi, perché la Francia è stata teatro di così tanti avvenimenti culturali e politici che ne siamo tutti in qualche modo gli eredi”, disse al nostro gruppetto tricolore in un italiano perfetto, “la mia lingua”, come amava spesso ripetere. Sì, perché, quel greco “fattosi romano”, lasciò ben presto il Pireo per arrivare nella Capitale nel 1956 a soli vent’anni, iniziando la sua avventura artistica prima all’accademia di Belle Arti (sotto la guida di Toti Scialoja) e poi, nel 1960, con la sua prima mostra, nella storica galleria “La Tartaruga” in via del Babuino, tappa obbligata per tutti gli intellettuali e artisti di quel periodo.

Indimenticabile e visionaria, la sua performance che lo consacrò come artista facendolo conoscere in Italia e all’estero. Correva l’anno 1969 e nella galleria “L’Attico” di Fabio Sargentini, allora al numero 22 di via Beccaria, a pochi passi da piazza del Popolo, lì dove oggi c’è una rimessa privata, riuscì a esporvi dodici cavalli vivi, portando qualcosa di nuovo e di mai visto nel mondo dell’arte. “Ho fatto sempre tutto senza mai pensarci troppo, non sono un borghese, peggio per me”, amava ripetere. Fu subito molto richiesto, dalla Biennale di Venezia (dove partecipò nel 1972 per la prima volta e dove tornò sempre nel corso degli anni) alla “documenta” di Kassel fino a New York, da Ileana Sonnabend, la ricca mercante d’arte rumena tanto amata da Warhol. L’artista dai lisci capelli bianchi ossessionato dalla Polaroid, non era particolarmente amato da Kounellis, perché nonostante fosse portatore di una libertà liberatoria quale era la Pop Art, era ai suoi occhi “estremamente negativo”. Preferiva di gran lunga Pollock, grazie al quale prese vita una pittura che fu espressione di un’inedita visione del mondo. Pittore e scultore, nel corso della sua lunga carriera Kounellis fu un artista anticonformista ed eclettico animato da un tessuto umano rigoroso fatto di libertà e di inventiva, di coraggio e di ideologia, di meditazione del pensiero e di un’irrefrenabile e decisa propensione al futuro che stava per arrivare, senza mai dimenticare il passato. Con i suoi immancabili pullover, sostituiti solo in poche occasioni formali dalla giacca, con la zazzera e i baffi sempre uguali nel tempo tranne che nel colore, spesso con la sigaretta in mano, amava inventare, creare, stupire, trasgredire ma – soprattutto – amava osare. Per farlo, era necessario “uscire dal quadro” – come disse – perché solo in tal modo “si possono ritrovare le intese” e si può “ristabilire una relazione dialettica con lo spazio”. “Uscire” era allora un atto rivoluzionario e solo nel tempo divenne per lui un atto anche liberatorio.

 

La libertà di comunicazione fu da lui identificata in una composizione di assemblaggi e materiali elementari duri che ritroviamo nelle sue installazioni di grandi e piccole dimensioni realizzate con ferro, legno, juta, fuoco, caffè, pietre (usate, insieme ai libri, per murare le porte) e carbone (“un’idea dolorosamente sociale”) fino ad arrivare alla drammaticità dei quarti di bue macellati, fissati con ganci a lastre metalliche e illuminati da lanterne a olio, esposti a Barcellona sul finire degli anni Ottanta. Misterioso e ombroso, amante delle tonalità scure dei quadri di Goya, girava il mondo in lungo e in largo, ma poi amava sempre tornare nel suo studio, “il mio posto abituale”, “il mio teatro”, “quello dove si prendono gli appunti per un lavoro che si fa altrove”. Andò ovunque, dall’Europa al Sudamerica fino in Cina, di recente, al Today Art Museum di Pechino, senza però dimenticare mai l’Italia. Alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma sperimentò per primo il suo “Atto Unico”, invadendo il grande ingresso e trasformandolo in un immenso labirinto protetto da lamiere di ferro, pezzi di carbone e altri materiali. Ne seguirono molti altri, sempre diversi, tra cui quello negli spazi industriali della Fondazione Pomodoro, raccontato in un libro (Skira) e nell’omonimo documentario di Ermanno Olmi che lo seguì per un mese realizzando un piccolo “film-pedinamento”, “un bellissimo viaggio”, “una giostra delle suggestioni più coinvolgenti che tornano e si ricompongono secondo una libera consequenzialità di tempo”. Da pochi giorni, Kounellis non c’è più, ma ci pensa la sua arte – umanistica, eroica ed universale – a continuare a parlare per lui. Un’arte che è sempre stata una presentazione (e non una rappresentazione) della vita che, come tutte le sue mostre, ha occupato lo spazio per il tempo di un atto unico. Ci manca già, ma per fortuna ci sono le sue opere o il ricordo delle stesse, colme di quella violenza visiva che ha sempre lasciato spazio a una poeticità quasi primordiale e a un pensiero volto alla riconquista retorica di un’unità perduta.

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