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Il problema della valutazione in Italia è nella sua contraddizione di fondo

Redazione

Lo stato intende la scuola come ente preposto sia alla formazione di cittadini, la cui diversità dev’essere temperata nell’eguaglianza, sia a premiare i meritevoli e sottoporre i pigri a del lavoro suppletivo

La riforma dell’Esame di stato, a partire dal prossimo anno scolastico, fa gridare allo scandalo: ogni allievo verrà ammesso all’esame non più in assenza di insufficienze bensì con la media del 6 calcolata su tutte le materie, condotta compresa. E’ un compromesso al ribasso, che consente di andare alla deriva nelle materie in cui si fa fatica cercando di riequilibrare la situazione in quelle per cui si è più portati. Questa retromarcia, se applicata saggiamente nei fatti, può tuttavia diventare il volano di un ripensamento del sistema di valutazione, a cominciare proprio dall’ultimo anno di scuola: non è un mistero infatti che le percentuali di non ammissione alla maturità siano infime, attorno al 5 per cento, a riprova che lo spettro di un’umiliante non ammissione spinge i docenti a gonfiare i voti negativi fino a che non raggiungano la soglia del 6. In questo modo si garantisce a diciannove studenti su venti di non avere insufficienze, mentre nei precedenti anni di corso uno studente su quattro ne ha qualcuna da recuperare; ciò consente dunque alla quasi totalità degli iscritti di poter affrontare un esame che la scorsa estate è stato superato dal 99,5 per cento dei candidati.

Cifre del genere dimostrano che la maturità popola gli incubi senza motivo. Caduto invece il vincolo della sufficienza, nulla vieta che i docenti si sentano più liberi di alzare l’asticella e divenire più avari nei voti, di modo tale da piazzare qualche insufficienza in più senza sentirsi responsabili della mancata ammissione di un determinato alunno, magari fatalmente negato per quella singola materia ma portato per altre. Tutto ciò, in linea teorica. E’ innegabile che la tendenza sia di segno opposto, come dimostra la discussione in Consiglio dei ministri attorno all’opportunità di proibire la bocciatura alle elementari, conservata ma pro forma: sia perché il ministro Fedeli l’ha espressamente limitata a “casi eccezionali e comprovati” (cioè mai, in una nazione dal ricorso facile), sia perché da un quarto di secolo è scomparsa nei fatti. Più che far polemica spiccia col terrorismo sui traumi infantili o con le geremiadi sulla scuola per ignoranti, urge rimontare al senso stesso della valutazione, dove si annida un peccato originale: la contraddizione fra inclusione e gerarchia, fra giustizia commutativa e giustizia retributiva. Lo stato intende la scuola come ente preposto sia alla formazione di cittadini, la cui diversità dev’essere temperata nell’eguaglianza, sia a premiare i meritevoli e sottoporre i pigri a del lavoro suppletivo. Il voto è un sindacabile numeretto che resta dilaniato fra questi bisogni opposti, distinguere il grano dal loglio e certificare che in fin dei conti anche il loglio ha i suoi pregi. Finché lo stato non uscirà da questa contraddizione, in Italia la valutazione sarà sempre un problema. Non a caso l’innovativa scuola senza voti che aprirà a settembre a Torino è un istituto privato: perché, non avendo il dovere etico di usare la valutazione come bastone e come carota, può permettersi di farne a meno.

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