James Joyce (foto di Max Froumentin via Flickr)

Il dolce tormento di Joyce che finalmente diventa leggibile e gioioso

Antonio Gurrado

La nuova e poco dotta traduzione di "Finnegans Wake"

Non scoraggiatevi se alle prime quattro righe di testo corrispondono due pagine di commento: la nuova traduzione di Finnegans Wake, pubblicata oggi da Mondadori, è un evento editoriale la cui portata va oltre la passione dei maniaci di Joyce. Questo romanzo assurdo e incontenibile, calembour poliglotta di 628 pagine pubblicato nel 1939 da Faber & Faber e sulla cui trama ancora si dibatte, è per la casa editrice di Segrate un dolce tormento. Avviata la traduzione dall’ardimentoso Luigi Schenoni, i primi quattro capitoli apparvero nel 1982; i successivi quattro nel 2001; altri quattro ancora, in due volumi, rispettivamente nel 2004 e nel 2011. Nel 2008 tuttavia Schenoni era morto lasciando il lavoro a metà. Mondadori avrebbe potuto abortire l’immane progetto, che costa fatica estrema senza garantire vendite popolari; tre anni fa ha invece deciso di affidarne il completamento a Enrico Terrinoni e Fabio Pedone. Il libro di oggi copre altri due capitoli; i restanti tre verranno pubblicati nel 2019, così che ottant’anni dopo l’originale avremo un’edizione italiana, completa e ben commentata. Allora bisognerà ricominciare. Oltre che più scorrevole della precedente, questa traduzione è storica perché condotta dando per assodata un’evoluzione culturale che l’editoria di solito fatica ad ammettere.

Ultimamente Joyce invade gli scaffali: Il Saggiatore ha appena pubblicato il mastodontico Lettere e Saggi cui Giuseppe Marcenaro ha dedicato una pagina sul Foglio dell’8 gennaio; Edoardo Camurri ha prefato la selezione di Finnegans Wake di Juan Rodolfo Wilcock (editore Giacometti & Antonello); Gallucci ha trasformato appunti preparatori in inedita raccolta di racconti, Finn’s Hotel; e abbondano i saggi, fra cui James Joyce e la fine del romanzo di Terrinoni stesso per Carocci. Tanta abbondanza non è solo perché cinque anni fa sono scaduti i diritti d’autore. Il fatto è che comprendere Joyce impone uno sforzo collettivo e orizzontale: non è possibile venirne a capo da soli e il lettore comune può scorgere sensi reconditi che magari passano inosservati all’accademico. Finnegans Wake è un romanzo-rete, che connette e impiglia.

La traduzione di Schenoni era inevitabilmente impostata secondo il tradizionale approccio dell’intellettuale solitario, corazzato di letture e abbandonato alla lotta contro un libro che esige l’onniscienza. La nuova traduzione ha ribaltato l’approccio. Oltre a lavorare assieme divertendosi, Terrinoni e Pedone hanno coinvolto quanti più aiutanti, condividendo lacerti su Twitter e organizzando su Pagina 99 un concorso in cui i lettori avrebbero dovuto tradurre di volta in volta un passo oscuro. Nel frattempo Mondadori stava rinnovando l’immagine di Joyce negli Oscar, ripescando nel 2014 la vecchia edizione dell’Ulisse e rimaneggiandola con l’inserimento a piè di pagina del corposo commento di Giulio De Angelis: una guida alla lettura che dal 1984 veniva pubblicata come volumetto a parte per rispettare l’ossessione di Joyce per la pagina pulita, senza titoli né paratesto, da osservare come un quadro d’avanguardia. Il felice incontro fra bravura dei traduttori, coraggio dell’editore e interesse per l’autore andrebbe sfruttato con due altri accorgimenti. Ultimato il lavoro, Terrinoni e Pedone dovrebbero ricominciare da capo soppiantando con la nuova traduzione quella di Schenoni e ricavandone diciassette capitoli prodotti secondo un progetto unitario. La seconda esigenza è di ordine pratico. Nel 2019 il Finnegans Wake di Mondadori consterà di sei volumi pubblicati in quarant’anni, per complessive 2.500 pagine circa. Mondadori potrebbe allora seguire l’esempio di Anthony Burgess che nel 1966 curò A Shorter Finnegans Wake e pensare a un volume antologico, che contenga le parti salienti dell’opera (la trama non ne risentirà), esclusivamente in traduzione italiana e con brani di raccordo e spiegazione. Sembrerà di violentare un capolavoro ma si può fare, ora che la traduzione da dotta s’è fatta leggibile, gioiosa e condivisa; ora che la cultura ufficiale sta faticosamente raggiungendo il punto a cui Joyce era arrivato ottant’anni fa.

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