La democrazia è in crisi da sempre, e l'Italia fratricida non fa rivoluzioni

Alfonso Berardinelli

Riformare il tipo dell’uomo politico prima della politica

Dopo il capolavoro di una sinistra che è riuscita ad abbattere il suo solo leader (perché non era abbastanza di sinistra) schierandosi trionfalmente con tutta la destra, la nostra politica torna a nutrirsi di se stessa. Si torna al clima elettorale, la sola cosa che ci appassiona. Evviva lo scontro, purché non si governi. Per fortuna l’onesto Gentiloni ha dichiarato di voler continuare con il programma del governo Renzi di cui era ministro degli Esteri, cosa che ha deluso i trionfatori del No al referendum, ancora occupati a fregarsi le mani. Non stanno più nella pelle per la gioia di essersi liberati (al momento) dell’odiato boy scout fiorentino. Nell’insieme, direi, uno scenario penoso. E il noiosissimo Crozza (che ne azzecca due su dieci) pretende di farci ridere ancora per mesi sbeffeggiando un presidente del Consiglio uscito di scena. Una volta si diceva che la satira politica attacca chi detiene il potere, ora Crozza scopre nuovi orizzonti, attacca chi il potere l’ha perso. Come diceva Umberto Saba, gli italiani sono fratricidi: “Vi siete chiesti perché l’Italia non ha avuto in tutta la sua storia – da Roma a oggi – una sola vera rivoluzione? (…) Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi”. Da Romolo e Remo in poi fino a Mussolini, un ex socialista che prende il potere bastonando i socialisti.

“Gli italiani – continua Saba – sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”. Ora si parla dovunque di crisi della democrazia e delle democrazie in Occidente. Una scoperta dell’ombrello. Era democratica l’Italia della Dc? Gli Stati Uniti sono mai stati una democrazia perfetta? La democrazia è sempre in crisi, lo è per definizione. La sua onestà e la sua forza consiste in questo. Democrazia significa imperfezione, equilibrio instabile. Le sue promesse sono e saranno sempre superiori alla sua capacità di mantenerle. In questo senso le sue classi dirigenti e i suoi governi, specie se di sinistra, saranno comunque costretti a un certo grado di ipocrisia. Oltre che essere un vizio, l’ipocrisia è un omaggio del vizio alla virtù. Se si governa “in nome del popolo” è perché il popolo (entità sociologicamente e storicamente variabile) è incapace di autogoverno diretto. Lenin parlava di mettere una cuoca al posto di comando, ma intanto al posto di comando c’era lui.

In democrazia, perciò, populismo ed élitismo sono condannati a convivere. Ogni élite democratica, per essere eletta e per governare deve far credere di essere “più” populista delle élite avversarie. Far credere: cioè manipolare l’opinione pubblica. Per qualche decennio il termine “manipolazione” fu considerato obsoleto. Oggi i nuovi media e big data iperpervasivi lo riportano in primo piano. Siamo dunque all’abc della teoria politica: popolo e capi, massa e potere, società, partiti, opinione pubblica, libertà e uguaglianza, istituzioni e vita sociale. Prendo dallo scaffale “Una introduzione alla politica” di Walter Lippmann (a cura di Giuseppe Buttà, Gangemi editore) un libro uscito negli Stati Uniti nel 1913. L’autore è un teorico classico dell’Opinione pubblica poco noto in Italia. Ricordo di aver letto per la prima volta qualcosa di lui in un’antologia del pensiero sociologico classico curata da Charles W. Mills, che uscì da Comunità all’inizio degli anni Sessanta. Apro la sua “Introduzione alla politica” per rinfrescarmi un po’ le idee e perché è un libro di un secolo fa e un libro americano. Si è detto di Lippmann che la sua è stata “una lunga marcia di trasformazione del giovane ottimista liberal (e socialista) in un vecchio conservatore pessimista”. Ma la cosa più interessante, credo, è la paradossale compresenza in lui di élitismo e populismo. Il suo “atteggiamento sperimentale” gli impediva di chiudersi in un punto di vista coerente e stabile di fronte a fenomeni che chiedevano, per essere compresi, il passaggio da un punto di vista (quello di chi fa politica) a un altro (quello di chi non la fa).

La politica è un’attività che deve restare “inventiva” nell’affrontare situazioni mutevoli. “Lippmann cerca di offrire un antidoto” scrive il curatore del libro “contro quella scienza politica che discute di istituzioni e ignora la natura degli esseri umani che vivono e lavorano sotto di esse”. Nel suo libro “The good society” Lippmann propose un equilibrio fra due teorie: quella del Settecento, per la quale il miglior governo è quello che governa meno, e la teoria del Novecento, secondo cui il governo migliore è quello che provvede di più. Inoltre, circa la “natura umana” e il popolo, in democrazia si deve essere, alternativamente, pessimisti e ottimisti, scondo le circostanze. A volte il popolo interviene a destabilizzare il potere, altre volte sceglie, esige un potere più forte e perfino autoritario. Nelle prime pagine della sua “Introduzione alla politica” Lippmann non fa del moralismo e prende molto sul serio l’indifferenza verso la politica che può provenire sia dagli intellettuali e dalle menti più creative (artisti, scienziati, filosofi) che dall’uomo medio e dal comune cittadino che non capisce e si annoia a morte quando prova a leggere articoli su questioni “metafisiche” come la circolazione monetaria e il mercato finanziario. “Più osservo senza veli la politica – dice Lippmann – più rispetto l’indifferenza del pubblico”. Eppure “è altrettanto indubitabile che i pubblici affari hanno un effetto enorme e intimo sulle nostre vite”. Inoltre in politica esistono “errori tali da far confondere le attività fittizie con quelle genuine”. Si fa presto a dire azione politica. Il nostro è un paese nel quale è il falso agire politico che impedisce e soffoca una efficace azione politica. Si è visto recentemente e si vedrà ancora. Prima della politica è il “tipo” dell’uomo politico italiano che andrebbe riformato. 

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