La moltiplicazione dei festival letterari nell'Italia che non legge più

Rubina Mendola

Il declino è costante, ma nel nostro paese si pubblica sempre di più. Di tutto e senza filtri

Il 7 Dicembre lo scrittore anglo pakistano Hanif Kureishi ha inaugurato un evento atteso dell’editoria italica. Si tratta della quindicesima edizione della Fiera nazionale della piccola e media editoria Più libri più liberi. La Fiera ospiterà, fino all'11 dicembre, 409 espositori e 350 incontri con circa mille relatori. Ma è solo l’ennesima idea di entertainment a sfondo librario. Ma se tutta questa ennesima ondata di circo bibliofilo fosse una posa, a conti fatti, completamente libricida? Molti autori, sì, e festival, fiere e laboratori di scrittura anche. Ma i lettori dove sono?

Gli italiani sono un popolo poco attivo culturalmente e di non lettori, o di lettori deboli (dati Istat rilevazione 13 gennaio 2016): il 9,1 per cento delle famiglie non ha alcun libro in casa, il 64,4 per cento ne ha al massimo 100. La lettura continua a essere molto meno diffusa nel Mezzogiorno. Al sud meno di una persona su tre (28,8 per cento) ha letto almeno un libro mentre nelle Isole i lettori sono il 33,1 per cento. I lettori forti, cioè le persone che leggono in media almeno un libro al mese, sono solo il 13,7 per cento, mentre quasi un lettore su due (45,5 per cento) si conferma lettore debole, avendo letto non più di tre libri in un anno. Le inchieste di Save the children degli ultimi tempi dicono poi che nell’ultimo anno il 48,4 per cento dei minorenni meridionali non ha letto neanche un libro.

Intanto, quando l’editoria pubblica di tutto, senza filtri e senza regole, i più illuminati avvertono un nuovo bisogno di autorità o di gerarchia che disintegri il circo corrente. In Italia, nonostante il calo delle vendite (4 per cento dall’inizio dell’anno), si pubblica sempre di più. Qual è il senso di promuovere i consumi culturali se mancano i destinatari? Ogni giorno escono circa 170 titoli, a scapito della qualità delle pubblicazioni. Così, ormai, rendicontare un festival libresco è cronaca mondana. Ci si rilassa al meglio presso la bancarella invece che nei fuori porta, che sono troppo cheap e poco radical per solleticare invidie: gongolare tra uno stand di antropologia e uno di poesia sì che è da specialisti del beau vivre. Il trionfo dei festival cultural-pop sempre, invariabilmente, “ricchi di proposte”, sono l’ottima succursale della tv con divi prestati alla narrativa (e viceversa). Si direbbero eventi alimentari, perché c’è più carne che carta e il tanto al chilo dell’editoria si dà arie con la scusa che deve “rimettersi in piedi”. Per chi gradisse il genere torte della nonna, commissari, raccontini rosa-shopping, l’esordiente complicato, il debutto bio-pecoreccio, non c’è niente di più funzionale di una festa dei libri (e Vaffa al canone di Bloom!).

Ma a forza di fare festival su festival non si elogia il chiasso senza qualità, alimentando illusioni e mezze calze servite su salsa glitterata da comunicato stampa? “Asfissiante cultura”, sì, come la chiamava Fofi, perchè è venuta a mancare la vitalità, rimpiazzata dall’elogio della lettura come routine di consumo. Notti bianche, notti del museo, colazioni e caffè letterarii, passeggiate-gelato col libro sotto l’ascella mal deodorata, grandi abbuffate nazionalpopolari di cibo-musica-e-cultura a pancia piena e coscienza pulita. Cultura innocua che un pò rincretinisca e un pò si strusci sulla vanità popolare con cambiamo il mondo, donne-contro, demagogie civiche, album di famiglia, incubi di guerra e d’infanzia e qualche mania di grandezza. Giovani promesse e consumati maestri, sembrano i più entusiasti tra i neoconvertiti ai vantaggi della sovraesposizione.

S’era detto: “Il sonno della ragione genera mostre”, perlopiù brutte, ma pure brutti festival di libri, con gli editori che eterodirigono gli autori verso una narrazione da tinello, dritti verso i babillages e le cantilene contemporanee: laboratori di scrittura, circoli virtuosi, editoria (in)sostenibile, tutto condensato nell’unica, meschina, preoccupazione che il testo si adegui al fruitore. E sotto tutta questa smania libricida, moralistica e seriosa, non potrebbero esserci residuati bellici dell’american dream da risvoltino al pantalone? In tutti questi tormentoni romantico-pragmatici del “crowdfounding” e dell’editoria indipendente, non c’è odore di carrozzone? In “Gita a Chiasso”, nel 1963, Arbasino accusava l’editoria italiana di non essersi mai ripresa dal ventennio fascista e mandava i nostri intellettuali a fare una gita “a due ore di bicicletta da Milano”, per sprovincializzarsi. Non c’è tempo da perdere, arrivano il festival! E suona l’ora della pseudo-cultura delegata a trattare con giornalisti e tenutari di rubriche letterarie.

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