Uno scorcio della periferia di Milano (foto di Flickr)

Quando a Milano i monumenti da contemplare erano le fabbriche

Marco Archetti

“Un’educazione milanese” di Alberto Rollo (Manni editore)

I pensieri migliori vengono mentre si cammina: potrebbe nascondersi in questa massima la perfetta sintesi di “Un’educazione milanese” di Alberto Rollo (Manni editore), che in un romanzo che non è un romanzo (ma ne ha la malia affabulante), in un’autobiografia che non è un’autobiografia (ma ne ha l’autorevole regia evocativa), in un saggio che non è un saggio (ma ne ha la partecipazione competente), racconta di se stesso attraverso qualcos’altro: l’ininterrotta flânerie nei peripati della memoria di una città – nel suo farsi – e di una precisa appartenenza di classe – nel suo disfarsi. Va proprio così: mentre l’identificazione con Milano si rafforza, segue di pari passo le nuove architetture e osa spiare il futuro, quella di classe, invece, a un certo momento si interrompe; “la morte della classe operaia” scrive Rollo, “è un sentore di sagome uscite di scena”. Scena. Appunto. Perché questo è un libro dall’allestimento inevitabilmente teatrale, in cui i personaggi arrivano sul palco, agiscono, e un po’ guardano il pubblico ma un po’ guardano il fondale, e il fondale è quella Milano che cresce, li cresce, e sarà forza determinativa. Il lettore sente che a questa storia – collettiva nella vasta superficie eppur privatissima nell’intaglio – può e vorrebbe appartenere ancora, ma in realtà non è più possibile; e che Rollo sa raccontare quel tempo attraverso la mappa sociale di un mondo che, formandolo, si formava, proprio come se ci svelasse un segreto e senza soccombere all’intento di fare la storia di quegli anni, chiari nel loro accadere mentre accadevano, ma che “sono solo un frammento della formazione”.

Non solo fatti, dunque: cos’altro? Una famiglia, prima intelligenza del mondo, l’appartenenza per eccellenza, ossia quella che non si può decidere. Madre sarta senza rossetto e padre comunista senza tessera, e le passeggiate domenicali ad ammirare la grandezza delle opere degli uomini: i monumenti erano le fabbriche. E poi gli amici, sparsi o in gruppo, comparse o protagonisti, forze motrici o punteggiatura affettiva di una vita che scopriva il teatro, la letteratura, le passioni accese e spente, comprese e non comprese anche mentre divorano, perché poi – racconta Rollo – “tornavo a casa dai miei con parole d’ordine che capivo solo in parte”. La crucialità delle date: nel 1964 muore Togliatti, si instaura il secondo governo Moro e Milano inaugura la sua prima metropolitana. La città aperta come un cantiere vista dal tram andando alla Barona come un teatro pieno di attrezzisti o quella della periferia nord tra il 1969 e il 1973, lungo anni grigi e nebbiosi, perché “il cattivo tempo è il tempo della serietà e non c’è dubbio che ci stavamo giocando l’esistenza sul piano della serietà”. Piano che a un certo punto si inclina: il concerto dei Rolling Stones a due passi da casa, e la loro musica che “non sembrava toccata dalla morte, interprete di una rabbia e di una fisicità di cui sapevamo ben poco”.

Nella memoria, un verso di Éluard e un comunismo che “si è fermato prima del sesso”. E l’amico Marco come un Virgilio, duca e luce del libro. L’amico che fa saltare in aria la logica delle cose, architetto rivoluzionario luxemburghiano (nel senso di Rosa), l’Unità piegata sotto la giacchetta mentre fuma Gauloises con gesto preciso, che con gesti precisi intenderà dar corpo e linee al cambiamento di una città, sbirciante da via Adige in “posizione Boccioni” per bisogno di appartenere a un quadro, a un destino. Che ne è, adesso, di tutta questa giovinezza esposta? Che ne è di questa Milano ricordata curiosamente senza pioggia? Crescere – ci dice Rollo – è rovesciare il sugo sulla tovaglia, e la giovinezza è l’ultima stagione per ricevere alimento dai luoghi. “Un’educazione milanese” è un libro evocativo, caldo di una passione non risaputa e privo di rosolatura nostalgica, lì a mostrare che per scrivere bene servono due cose: un punto di vista preciso e una molto precisa nozione della lingua italiana. Il resto è manualistica deteriore. Il resto è romanzeria. 

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