Un paese che non investe sui giovani non potrà cambiare né crescere

Piero Vietti
L’Italia che non studia né lavora spiegata dal demografo Rosina. Un fenomeno che in Italia è storicamente molto più grande che nel resto d’Europa, arrivando a incidere per il 22,3 per cento sulla popolazione compresa tra i 15 e i 29 anni.

Roma. Il discorso sulle nuove generazioni cammina spesso su un filo di retorica lamentosa. Per provare a superare i luoghi comuni e discutere nel merito del problema l’Istituto Toniolo di Studi Superiori, la Fondazione Cariplo e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, hanno promosso a Milano, giovedì e venerdì, un convegno sui Neet. L’acronimo è nato nel 2010 e serve a indicare i giovani che non lavorano, non studiano e non svolgono neppure percorsi di formazione (Not in education, employement or training).

 

Tra i relatori e organizzatori del convegno c’era Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia in Cattolica, che al Foglio prova a spiegare origini culturali e ricadute sociali di un fenomeno che in Italia è storicamente molto più grande che nel resto d’Europa, arrivando a incidere per il 22,3 per cento sulla popolazione compresa tra i 15 e i 29 anni (nel resto dei paesi Ue la media è attorno al 15 per cento). “Questo divario c’è sempre stato – dice Rosina – ma con la crisi è aumentato ed è sempre più difficile ridurlo”.  Non basta la grande mole di lavoro sommerso a spiegare queste cifre: “C’è una specificità tutta nostra – spiega Rosina – che è quella per cui i giovani italiani dipendono a lungo dai genitori”. Mentre per un trentenne danese sarebbe impensabile vivere con mamma e papà, per un trentenne italiano è normale. “Questo nasce da una caratteristica culturale che connota il nostro paese da sempre – prosegue il professore – e che ha un’origine naturalmente positiva, quella della solidarietà famigliare, della costruzione una rete di rapporti duratura e di aiuto vicendevole tra parenti”.

 

Col tempo questo aspetto però è in parte degenerato, “la famiglia si è trasformata in ammortizzatore sociale, con genitori che vogliono avere un peso nel futuro dei figli e i figli che non avendo prospettive ne approfittano”. Tutto questo non funziona più: la crisi ha eroso i risparmi delle famiglie, i giovani si rendono conto di fare rinunce eccessive e nascono anche tensioni sociali. “Ai genitori iperprotettivi si aggiunge un sistema di welfare pubblico carente, che ha anzi usato il forte tessuto famigliare come alibi per non intervenire con politiche ad hoc per i giovani. Per noi i venticinquenni sono figli, negli altri paesi sono membri delle nuove generazioni su cui investire. In Italia si chiede a papà e mamma quello che altrove è un diritto garantito”. Come se ne esce?

 

"Occorre un salto culturale – spiega il demografo – le nuove generazioni non sono un bene privato dei genitori, ma un bene su cui il paese investe”. Rosina parla di “degiovanimento” della popolazione, che in Italia è sia quantitativo sia qualitativo. Per spiegarsi fa due esempi: “In Francia tutti i governi hanno investito sulle politiche famigliari, con il risultato che le nuove generazioni hanno una consistenza demografica simile a quella dei loro padri, e quindi un peso politico ed elettorale significativo. Se il futuro è una casa Parigi la sta costruendo con molti mattoni”.

 

In Germania invece le stesse politiche non hanno portato all’aumento della popolazione, ecco che allora il governo “ha compensato con investimenti pubblici sui giovani: sono pochi ma pesano, vengono formati bene nelle università e collocati nel mondo del lavoro con conoscenze adeguate. Berlino ha pochi mattoni ma li mette nei posti giusti”. L’Italia invece “ha pochi giovani, li forma male, non li aiuta a trovare lavoro e non investe sulle loro capacità”. Una situazione che diventa alibi per i giovani, che possono lamentarsi e rimanere Neet, ma anche – provoca Rosina – “una situazione che fa comodo a gran parte della classe dirigente, che può scegliere il ricambio generazionale che preferisce, spesso pescando tra i propri figli”. Non siamo più un popolo di bamboccioni, però: “C’è una quota crescente di chi studiando già cerca lavoro, i giovani hanno un nuovo spirito di adattamento, molti scelgono di andare all’estero, ma c’è una fetta crescente di popolazione che rischia di essere marginalizzata”. Rosina non invoca un intervento statalista, ma investimenti pubblici diversificati sui giovani. C’è un’oggettiva difficoltà da parte delle generazioni più vecchie nel comprendere i cosiddetti millennial: “Loro vogliono emergere come tutti, ma sanno lavorare in orizzontale, senza barriere o schemi rigidi. Siamo noi che facciamo fatica a leggere gli aspetti positivi di questi ragazzi, schiacciandoli verso rassegnazione o forme di protagonismo negativo. Le nuove generazioni sono gli alleati più credibili del cambiamento”. Che non sempre è positivo in quanto tale, però. “Vero – conclude Rosina – ai giovani vanno dati strumenti e chiavi interpretative nuove per sapere cogliere le opportunità”. Resta il problema, non secondario, di chi sia effettivamente a dare questi strumenti ai giovani.

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  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.