La copertina del numero 1 di Dylan Dog

1986, l'anno che cambiò il fumetto. Da Batman a Dylan Dog

Stefano Priarone

Trent’anni fa il mondo dei comics viene rivoluzionato con “Il ritorno del Cavaliere Oscuro" e “Watchmen” in America. E in Italia esce “L’alba dei morti viventi”, il debutto dell'indagatore dell'incubo scritto da Tiziano Sclavi e disegnato da Angelo Stano.

“Dove sei Batman adesso? Ora che zia Harriet ha detto che Robin è scomparso?”. Sono i primi versi di una poesia del 1967 dell’inglese Brian Patten, che cita anche altri personaggi a fumetti, come Superman, Capitan Marvel e Flash Gordon, assurti a simbolo dell’infanzia perduta. Era anche nella nostra antologia di inglese al liceo, ed era un po’ straniante leggerla. Perché quel Batman visto da Patten come simbolo del passato all’epoca, grazie al film di Tim Burton era diventato un pilastro dell’immaginario occidentale. E lo sarebbe rimasto: quest’anno è apparso in due blockbuster, sempre interpretato da Ben Affleck (forse il miglior Batman mai apparso sullo schermo, peccato non avergli anche dato una sceneggiatura decente), come protagonista in “Batman V Superman: Dawn of Justice” e come comprimario in “Suicide Squad” (dove fra i protagonisti abbiamo due suoi classici nemici, il Joker e la di lui fidanzata Harley Quinn). Ma tutto grazie a quanto successo qualche anno prima, nel 1986, forse l’anno migliore nella storia del fumetto. E forse anche grazie alla poesia di Patten.

 

Lo sceneggiatore inglese Alan Moore in un’intervista del 1984 dice: “La poesia di Patten ti fa pensare a cosa si potrebbe fare guardando questi personaggi con uno spirito poetico. Forse è stato grazie alla poesia che è sorto il mio approccio verso i supereroi”. Moore, classe 1953, negli anni Ottanta è uno degli autori britannici che sta cambiando il mercato americano del fumetto. Per la DC Comics di Batman e Superman scrive la lirica serie horror “Swamp Thing”, con protagonista una pianta senziente con i ricordi di un uomo, ma è nel 1986 che esce la serie in dodici albi (poi raccolti in volume) “Watchmen”, scritta da lui e disegnata dal connazionale Dave Gibbons, che rivoluziona i comics. Presenta, in un 1985 alternativo dove gli Stati Uniti hanno vinto la guerra del Vietnam e non c’è mai stato il Watergate, supereroi “umani, troppo umani” come direbbe Nietzsche (citato anche nella saga), deboli, fragili, che alla fine falliscono. Alla fine? “Non esiste la fine Adrian. Niente ha mai fine.” Nel finale di “La breve favolosa vita di Oscar Wao”, romanzo per il quale Junot Diaz ha vinto il Premio Pulitzer, l’autore cita il dialogo fra due personaggi di “Watchmen”, l’onnipotente Dottor Manhattan e il colto e brillante Adrian Veidt.

 

 “Quelle righe mi hanno turbato da ragazzino” ci ha detto Diaz tempo fa. “All’epoca volevo che le cose finissero in modo semplice e ordinato. Da adulti si impara che non solo le cose non finiscono in modo ordinato, in un certo senso non finiscono mai. Quando ho letto il numero finale di “Watchmen” andavo ancora alle superiori e ho detestato quella frase perché da qualche parte dentro di me sapevo che Moore aveva ragione. Ed ecco perché l’ho usata nel mio libro, perché era triste ma vera”. Lo stesso finale del fumetto, con New York distrutta da un finto attentato alieno (in realtà provocato da Veidt per evitare una guerra fra Usa e Urss), non può non far pensare all’attentato alle Torri Gemelle dell’Undici Settembre 2001 secondo le teorie complottistiche. “Watchmen” ha influenzato scrittori, fumettisti, autori di cinema e di televisione, ma non è l’unico capolavoro del 1986 che cambia il paradigma del fumetto di supereroi. Nello stesso anno l’americano Frank Miller scrive e disegna la miniserie “The Dark Knight Returns” (“Il Ritorno del Cavaliere Oscuro”) nella quale un Bruce Wayne cinquantenne torna dopo anni a calarsi nei panni di Batman. Ma adesso la società è molto diversa: i media, e anche i giudici, sono tutti per i criminali. E allora Batman diventa davvero un Cavaliere Oscuro, un vigilante duro e ossessionato che lotta contro il crimine, contro le proprie ossessioni e contro una società corrotta. È con Miller che nasce il Batman moderno, cupo e fascinoso vigilante che non ha più nulla in comune con il banale difensore dell’ordine costituito interpretato da Adam West nella serie televisiva degli anni Sessanta. Miller, classe 1957, è considerato adesso autore “di destra” specie dopo il libro a fumetto “Holy Terror” dove un simil Batman combatte i terroristi islamici, mentre Moore è dichiaratamente di “sinistra”, però Miller è semmai di destra libertaria, non certo fascista. "Chiunque pensi che Batman fosse un fascista dovrebbe studiare la sua politica” ha dichiarato Miller. “Il Cavaliere Oscuro, se non altro, sarebbe un libertario. I fascisti dicono alla gente come vivere. Batman dice solo ai criminali di fermarsi".

 

Il 1986 è l’anno di Miller: in vero stato di grazia, è autore, stavolta solo come sceneggiatore, di una serie di altri capolavori. Come “Batman Year One” nel quale rilegge, con i disegni di David Mazzucchelli, le origini dell’Uomo Pippistrello, uno splendido noir a fumetti. E noir sono anche le avventure di Daredevil, alias l’avvocato Matt Murdock: un incidente lo ha reso cieco, ma ha potenziato gli altri sensi. Grazie anche all’addestramento del ninja “buono” Stick, combatte il crimine in una New York mai così cupa e disperata. Sempre nel 1986 esce la splendida saga “Born Again” (Rinascita), ancora a opera di Miller e Mazzucchelli, con il confronto fra Daredevil e Wilson Fisk, alias Kingpin, il signore del crimine della città. Karen Page, ex fidanzata di Murdock, per una dose di droga vende l’identità segreta di Daredevil e Kingpin gli rovina la vita. Ma, in una sorta di dichiarata saga cristologica, Daredevil-Murdock risorge: raramente nel fumetto di supereroi era stata realizzata una saga così epica e commovente. E i capolavori di Miller del 1986 non finiscono qui, ce ne sono altri due in coppia con il disegnatore Bill Bill Sienkiewicz, la miniserie “Elektra: Assassin”, dedicata alla guerriera ninja fascinosa e psicopatica e ragazza di Murdock (decisamente ha problemi a scegliersi le fidanzate…) e la graphic novel (termine all’epoca poco usato) “Amore e guerra”, nella quale si esplora il rapporto fra Kingpin e la moglie Vanessa, che cerca di fare appello alla parte migliore del marito. Sienkiewicz usa uno stile pittorico, mixando anche collage e vere e proprie foto, in uno stile influenzato, più che dai fumettisti, dagli artisti della Secessione Viennese di inizio Novecento, in primis Gustav Klimt e il suo pupillo Egon Schiele. Miller lo asseconda con testi sincopati, dove si segue il monologo interiore dei personaggi, spesso delirante.

 

Come è potuto succedere? Negli States i fumetti erano in crisi di vendite da anni, lontani erano gli anni Cinquanta. Alla mostra di Vivian Maier lo scorso febbraio a Milano si poteva fra l’altro ammirare la foto di un’edicola dei Fifties, strapiena di fumetti, dai Disney a quelli horror a quelli di guerra. “I misteriosi picchi nella cultura pop sembrano sempre più facili da spiegare dopo che sono avvenuti” dice al Foglio il critico liberal americano Adam McGovern. “Dal nostro punto di vista adesso sembra chiarissimo che la stagnazione economica e la musica di metà anni Settanta e le frustrazioni della gente non potessero che far nascere il punk, ma all’epoca era stato uno shock, per quelli che allora lo hanno detestato o un miracolo per quelli che lo hanno amato. Molti eventi significativi sono venuti dagli States che si trovavano nell’era reaganiana, conformista e priva di immaginazione. Ma nessuno si curava di una forma d’arte all’epoca poco apprezzata, nessuno pensava che proprio dal fumetto potessero arrivare nuove idee, e infatti la sperimentazione si sviluppò proprio lì. In “Dark Knight” Miller satireggia Reagan e in effetti sia Nixon in “Watchmen” che Reagan in “Dark Night” sembrano aver preso il potere a vita”.

 



L'edicola strapiena di fumetti nella foto di Vivian Maier


 

Stava cambiando anche il mercato. “Ormai i fumetti erano venduti sempre meno nei drugstore o nelle edicole e sempre più nei negozi specializzati, senza rese, così le case editrici potevano calibrare la loro distribuzione. Certo, questo nel tempo ha condotto a trend sfortunati, alla fine quella del negozio di fumetti è diventata una subcultura che ha marginalizzato il medium, seppure in un modo diverso, ma sarebbe successo in seguito, come si suol dire è un’altra storia”. E che è successo con le star del 1986? Moore da allora continua a scrivere fumetti (e non solo, è in arrivo “Jerusalem”, un suo romanzo di oltre mille pagine), ma non più supereroi, è in cattivi rapporti con la DC Comics e non ha voluto neppure un dollaro per la versione cinematografica di “Watchmen”uscita nel 2008. Miller è noto al grande pubblico per i film tratti da sue opere successive, “300” e “Sin City”, ha problemi di salute, ma sta scrivendo, con Brian Azzarello e con i disegni di Andy Kubert, “Dark Knight III”. Forse si ripete, ma cosa si può pretendere ancora da lui? Batman non sarebbe l’icona che è adesso senza il suo Dark Knight, la serie tv Netflix di Daredevil adesso alla seconda stagione è stata fortemente influenzata dalla sua versione del personaggio, le stesse eroine al femminile prendono dalla ninja Elektra. Frank è lo zio geniale e un po’ sopra le righe di tutti noi che amiamo la cultura pop.

 

 

Mi chiamo Dog, Dylan Dog

 

Il rinascimento fumettistico americano del 1986 sarebbe arrivato in Italia solo alcuni anni dopo. Ma è un anno importantissimo anche per il nostro Paese. A fine settembre (con data di copertina ottobre) esce “L’alba dei morti viventi”, il numero uno di Dylan Dog, scritto da Tiziano Sclavi e disegnato da Angelo Stano. La casa editrice è la Sergio Bonelli di Tex, Zagor e Mister No, ma il personaggio è piuttosto diverso, anche se Sclavi ha scritto (come ghost) alcune storie proprio di Zagor e Mister No. Si definisce Indagatore dell’Incubo, veste di nero e rosso, porta le Clark, guida un maggiolone, ha un assistente, Groucho, che è il sosia sputato di Groucho Marx, vive in una Londra che sembra Milano, come figura paterna ha l’ispettore Bloch di Scotland Yard. Dylan Dog non è solo una serie horror anomala (i “mostri” sono spesso i “buoni”), semmai sfrutta gli incubi per affascinanti sedute psicanalitiche di Sclavi con il lettore. Intercetta le paure, le ansie, gli incubi e i sogni di un’intera generazione, e ha un grandissimo successo. Le edicole prima erano quasi vuote: molti gloriosi personaggi seriali erano spariti, altri proseguivano stancamente, le stesse riviste cosiddette “d’autore” stavano entrando in crisi. Certo, nel 1982 era arrivato, sempre per Bonelli, un personaggio innovativo come Martin Mystère, ma il suo fascino era forse troppo intellettuale, rimaneva (relativamente) d’elite. Dylan Dog, invece, è viscerale. Persino più colto di Martin Mystère, ma più “di pancia”. Come la musica heavy metal degli Iron Maiden e dei Metallica, che proprio nel 1986 pubblicano uno dei loro migliori album, “Master of Puppets”. Come i film di “Nightmare”, con tanti teenager che lottano contro Freddy Kruger, un ironico orco postmoderno.

 



Tiziano Sclavi con Dylan Dog


 

Una scrittura perfetta (Sclavi è un eccezionale sceneggiatore), ricca di immagini coinvolgenti, perfettamente rese disegnatori bravissimi e innovativi (da Stano a Luigi Piccatto da Giampiero Casertano a Bruno Brindisi a Corrado Roi, per citarne alcuni). “Per me Sclavi ha colto lo spirito di un’epoca, di una generazione, come solo i più grandi autori (in generale, non solo i fumettisti) hanno fatto. Ha saputo raccontare se stesso, il Paese, il fumetto, in una grande operazione che ha fuso fumetto cosiddetto d’autore e fumetto (sempre cosiddetto) popolare” dice al Foglio il regista Giancarlo Soldi, autore del documentario su Sclavi “Nessuno siamo perfetti”. Sclavi è Dylan Dog, In teoria la serie è ambientata a Londra, ma in realtà la Londra di Dylan Dog è la Milano di Dino Buzzati, poetica e onirica. “Ho iniziato il numero uno prima che mi operassero al setto nasale deviato” dice al Foglio lo sceneggiatore Claudio Chiaverotti, dal 1989 a tempi recenti uno dei più prolifici – è più sclaviani – scrittori della serie. “Me la sono letta metà prima e metà dopo l’operazione e ho capito subito che Dylan avrebbe fatto la storia del fumetto. Uno dei segreti del successo di Dylan è stato entrare in sintonia con le paure dei ragazzi. Quando sono entrato nello staff è stato come se mi avessero detto di fare il gioco che mi piaceva di più!”. Sclavi non conosce, all’epoca, Moore e Miller, eppure non è forse un caso che Dylan Dog, che festeggia i trent’anni sempre con un buon seguito di vendite (e lo stesso Sclavi scriverà il numero di fine ottobre, il primo dopo un decennio di assenza dalla serie), esca proprio nel 1986, e lo stesso creatore di Dylan Dog nel 1988 scriverà “Incubi” storia di Zagor con un approccio al personaggio molto simile a quello di Miller con Batman. Forse esistono davvero sintonie quasi junghiane nella cultura pop.