Il crocifisso ancora appeso dopo il crollo della chiesa di Sant’Egidio Abate a Cavezzo, Modena, nel 2012

Il Dio delle macerie

Piero Vietti

Si può stare davanti a una tragedia come quella del terremoto senza disperare? Basta  cercare cosa c’è all’origine del mistero muto della natura, dice il fotografo Giovanni Chiaramonte, che nel 2012 fotografò il sisma dell'Emilia.

“La natura ci disprezza e il resto vien da sé” (The Zen Circus, “Canzone contro la natura”)

 

“Dio è per noi rifugio e forza / aiuto sempre vicino nelle angosce. / Perciò non temiamo se trema la terra / se crollano i monti nel fondo del mare” (Salmo 45)

 

Dove era Dio, la notte del 24 agosto scorso, quando la terra del centro Italia ha cominciato a tremare, e sembrava non volesse più smettere? Dove era Dio, quando case, palazzi, paesi interi si sono sbriciolati, schiacciando sotto il peso delle pietre uomini, donne, anziani e bambini? Dove era Dio, quando il terremoto è arrivato come un ladro, nel cuore della notte, a rubare la vita di centinaia di persone? Dove era Dio, quando ai pochi che erano riusciti a sopravvivere al crollo, intrappolati sotto le macerie, è cominciata a mancare l’aria, l’eco dei soccorsi ancora lontana, e hanno capito che non ce l’avrebbero fatta? “E adesso che si fa?”, chiedeva ancora a Dio monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli, come ha confessato lui stesso durante l’omelia ai funerali delle vittime marchigiane del terremoto. Da quando l’uomo cammina sulla Terra si pone domande sul significato del dolore, si chiede perché il male colpisca indistintamente, spesso in apparenza accanendosi sui cosiddetti “giusti”, sugli innocenti. “Che c’entrano i bambini?”, chiede Ivan Karamazov interrogandosi sul senso della sofferenza.

 

L’uomo moderno ha però in parte smesso di farsi certe domande, e dopo il terremoto di Lisbona del 1755 ha deciso con Voltaire che non può esserci un Dio se succedono fatti come quello. Scriveva Mattia Ferraresi in “Se anche la terra trema” (Itaca), volume del 2012 sul terremoto in Emilia, che “se nell’antichità i fenomeni naturali erano comunemente attribuiti alla forze divine che governavano gli elementi, ora ogni insinuazione che una calamità abbia a che fare con Dio è un affronto impronunciabile pubblicamente. Dare la colpa all’uomo, invece, appare perfettamente ragionevole”. Ma questo è un tentativo di ridurre la portata dell’evento che alla lunga non regge: quella domanda di senso, di una spiegazione altra, torna sempre, soprattutto dopo una tragedia come quella che ha colpito il centro Italia. La si può censurare, parlando – comprensibilmente – d’altro, come fanno i media, riempiendo le pagine dei giornali e i servizi dei tg con la triste cronaca, scrivendo articoli che toccano tutte le note dello spartito delle emozioni, facendo interviste polemiche sulla ricostruzione, cercando a ogni costo i colpevoli, pubblicando resoconti tremendi sulla conta dei morti, e mettendo in fila storie tragiche e fortunate che dimostrino come sia stato il caso a giocare la partita. Manca un’indagine sul significato di questo evento, sul perché di tanta sofferenza e sul motivo per cui bisogna e si può andare avanti. E non può essere sufficiente dire, come ha fatto il vescovo di Rieti, monsignor Domenico Pompili, ai funerali delle vittime di Amatrice, che “il terremoto non uccide, uccidono piuttosto le opere dell’uomo”. Può una persona stare di fronte a una tragedia come quella senza disperare? Se anche la terra trema, su che cosa possiamo appoggiare la nostra sicurezza?


 

 


 

La mattina del 29 maggio 2012, quando, a distanza di pochi giorni dalla prima, una seconda scossa di terremoto colpì, ferendola, l’Emilia, Giovanni Chiaramonte decise di correre in quei luoghi “nella speranza di trovare posti capaci di testimoniare la ragione viva di un paesaggio in cui e per cui valesse ancora la pena di vivere e morire”. Nato a Varese da genitori di Gela nel 1948, Chiaramonte è uno dei fotografi italiani viventi più originali e apprezzati. Ha esposto a Berlino, New York, alla Triennale di Milano e alla Biennale di Venezia. Insegna allo Iulm di Milano e al dipartimento di Architettura di Cesena. Cattolico, filosofo, dice della sua opera che “ha come tema principale il rapporto tra luogo e destino nella civiltà occidentale”. Arrivato tra le macerie – racconta nel suo libro fotografico “Interno perduto. L’immanenza del terremoto” (Franco Cosimo Panini) – si accorge che “come in una tragica metafora della civiltà contemporanea, i crolli degli edifici hanno sepolto e reso impraticabile l’interno: la dimensione in cui l’uomo può rientrare in se stesso e lì trovare la propria verità”. Un terremoto, una tragedia, un male grande e inspiegabile, ci danno la sensazione che non possa più esserci alcuna verità, che il significato delle cose, della vita, venga schiacciato e distrutto dal crollo dei muri squarciati.

 

“La domanda sul significato di quello che è successo – dice al Foglio Chiaramonte – è rivolta a te che sei rimasto vivo. La risposta non è nella cronaca. Dopo il terremoto di Lisbona e la vista di Messina devastata dal sisma del 1783 Goethe sembra perdere la fede in Dio e ogni fiducia nel concetto illuminista di storia come progresso razionale e continuo”. La strage è opera della natura, coinvolge tutti, non può esserci un Padre celeste, pensa lo scrittore tedesco. “Davanti a questa dismisura – prosegue Chiaramonte – a questo incalcolabile, la prima reazione è dire tutto questo è male”. E’ la grande domanda di Giobbe, nella Bibbia, l’uomo giusto messo alla prova con sciagure e malattie ma che non smette di lodare Dio: perché nascere, se la vita è dolore? “L’uomo viene alla luce come urlo, pianto, nel sangue. La sua esistenza è un distacco continuo. Dal primo istante della sua vita l’umano è gettato nel dolore”. Per Chiaramonte l’esperienza del terremoto è stata innanzitutto questa: “Dovermi confrontare con il primo dato del mondo, che è l’incalcolabile, la morte”. Tutte le cose che vediamo finiscono. “Tutto finisce sempre. Non smette mai di finire”, scrive Ugo Cornia in “Buchi”, descrivendo l’esperienza comune a ogni uomo di ogni tempo. “Ma io questo posso dirlo perché sono vivo – continua Chiaramonte – Di fronte al dato del male posso fare due cose: maledire, prendere le distanze, come fece Voltaire dopo il sisma di Lisbona, dicendo che tutto questo non è Dio; oppure darmi un’ultima parola, che è un credito alla luce, alla benedizione”. Davanti al terremoto che aveva distrutto i luoghi che Chiaramonte amava “ho dovuto ridire questa benedizione: di fronte a quell’orrore a me, creatura libera, era chiesto di dire sì alla vita che è stata data”. Che il discorso non sia astratto si capisce da un’analogia calzante: “Gesù muore pregando per i suoi nemici. Il primo atto dei discepoli di fronte alla sua morte è prendere il corpo, deporlo per curarlo e pulirlo. Ecco perché il primo atto di fronte a una tragedia è il soccorso, la cura. Non la disperazione, ma uno che in silenzio si ‘prende cura di’. In questo gli italiani dopo il terremoto sono stati esemplari”.

 

C’è un paradosso, in questo benedire di cui parla Chiaramonte: “Ho dovuto liberarmi da qualunque idea di stabilità fondata su un mio possesso, accettare che la vita è un dono a me, mortale, fatto da uno che mi ama da sempre e per sempre”. La fotografia nasce da questo, ci spiega, “il segno dell’infinito che sull’obiettivo si fa finito”, la memoria della luce. Quando Goethe nel 1787 visita Messina scappa, perché non riesce a reggere l’orrore della città distrutta dal terremoto. Quella tappa del suo viaggio in Italia gli fa capire la vanità degli sforzi dell’uomo: basta un evento naturale, o una guerra, per cancellarne ogni traccia. Per questo, dice ancora Chiaramonte, il grande tema che un evento come il sisma ci pone davanti è “su cosa costruire la civiltà dell’uomo”. Perché di fronte allo squarcio ci viene da ricostruire come era e dove era? “Le ragioni sono da cercare dentro all’uomo, e sono un sì alla vita. Non cronaca, benedire”.



Negli scatti di Chiaramonte in Emilia si irradia una luce d’oro che all’occhio di chi guarda appare provenire da dentro le macerie, non da fuori. Che cos’è quella luce? Un inganno, o qualcosa che esiste davvero, e si può trovare tra la polvere delle case distrutte dal sisma? “Il grande tema dell’umano – prosegue ancora Chiaramonte, citando Luigi Ghirri – è che l’originale è perduto”. Viviamo i nostri giorni nella lontananza dal mistero che ha fatto noi e il mondo, “una distanza che è stata colmata dal della Madonna a Dio che voleva farsi uomo”. E’ lo stesso sì che dobbiamo dire noi di fronte alle macerie, dice Chiaramonte, un sì alla luce che c’è al fondo di esse: “La fotografia è memoria speculare di ciò che avviene davanti a noi, che quindi appare e scompare, memoria di istanti che nel momento in cui vengono ‘fermati’ già cambiano e non ci sono più. Il modo con cui ho fotografato il terremoto dell’Emilia è dentro alla categoria dell’evento: per quanto sia un’immagine fissa, ho voluto conservare lo stupore dell’evento, che è qualcosa che sovviene ed è incalcolabile”. La categoria della catastrofe è la stessa della creazione, dice Chiaramonte: “Un grande mistero che possiamo solo accettare. Ma il tema della creazione è anche il tema della descrizione: più cerchi di descrivere più vedi che è impossibile. Più determini più vedi che è indeterminato. L’unica misura è quella di Giobbe: benedire. Quello è il gesto che fa ogni soccorritore, ogni altro atteggiamento partecipa dell’orrore cercando di ridurlo”. Ecco perché la cultura moderna, “che vuole e pensa di potere calcolare tutto, quando si trova davanti a un fatto del genere cerca il capro espiatorio”, il colpevole, lo scienziato non abbastanza scienziato che non ha saputo prevedere il disastro.



Anche un fotografo, in quest’ottica, diventa soccorritore, perché di un evento ci restituisce la misura, l’ordine, che è quello della luce. Chiaramonte fa un esempio, e cita un famoso scatto di Edward Weston che ritrae un uomo morto nel deserto del Colorado, “ma fotografato come un uomo che dorme e su cui si vede la luce dell’alba”. Questo è il compito del fotografo di fronte alla morte, “non rintracciare la tragedia, ma mostrare come la rovina diventa apertura, sapere che il dramma umano si scioglie nella misericordia di Dio”. Nella vita, però, e nelle immagini dei luoghi colpiti dal sisma in centro Italia, emerge prepotentemente un senso di disordine e di irrimediabilità. Per quanti sforzi faccia l’uomo, il male sembra avere sempre l’ultima parola su tutto. “L’uomo non può dare una risposta – dice Chiaramonte – può solo offrirlo, farsi attraversare da questo male, come ha fatto Cristo”. Torna la questione di prima: su che cosa fondare una ricostruzione, su cosa costruire una civiltà? “Lo squarcio lasciato dal terremoto mi chiede un atto d’amore che è lo stesso di Colui che ha creato il mondo”. La distanza che ogni persona sente dalla misteriosa origine di sé, dall’originale perduto, è colmata dal riconoscimento “che nella tragedia Dio mi affida il sacrificio della lode”. Benedire. “Questo è l’unico gesto possibile, che non toglie il dolore, anzi lo esalta. Ma è anche l’unica condizione che permette di ricostruire davvero. Questa è la nostra condizione: noi offriamo la preghiera”.

 

Da dentro l’interno perduto delle cose distrutte dal terremoto s’irradia una luce che ha origine dall’originale ritrovato. “Nelle mie fotografie delle zone colpite dal sisma – dice Chiaramonte – le macerie hanno la M maiuscola. Trasmettevo il terribile, ma allo stesso tempo ero in preghiera. Tutto è occasione per dire sì alla luce che viene”. Nella penultima pagina del suo libro, Chiaramonte ha scelto di mettere la foto del tabernacolo del Duomo di Mirandola aperto, vuoto. “Dov’era Dio?”, si chiedevano i sopravvissuti alla Shoah. “Dov’era Dio?”, si chiede chi osserva i paesi rasi al suolo in centro Italia. Nella luce che si irradia dalle macerie nonostante tutto, suggeriscono gli scatti di Chiaramonte. “Nell’atto eucaristico di Cristo”, dice lui. “Dio interviene nella libertà. Noi possiamo solo attraversare tutto questo benedicendo”. E’ poi quello che per due millenni ha fatto l’arte cristiana, soprattutto in Italia, conclude Chiaramonte: guardare la realtà, anche quando è terribile, come il centurione ai piedi della croce, che vedendo Gesù morire disse: veramente quest’uomo era Figlio di Dio. “Questo è il nostro sguardo. Noi non chiediamo altro che quello sguardo”.

 


Le fotografie di questo articolo compaiono nel volume di Giovanni Chiaramonte “Interno perduto. L’immanenza del terremoto” (Franco Cosimo Panini) ed è pubblicata per gentile concessione dell’autore

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.