“Narcos”, la storia del bandito che voleva diventare presidente

Massimiliano Trovato
Torna su Netflix la seconda stagione. Storia del boss che usa la violenza delle armi e l’inganno della parola per sfidare il potere statuale e soppiantarlo
“Plata o plomo”, argento o piombo, quattrini o proiettili. Pablo Emilio Escobar Gaviria, il Maradona del narcotraffico, ha una comprensione innata delle regole del consenso: se possibile, meglio comprarlo; altrimenti, lo si può sempre estorcere. Non stupisce che il ruolo del bandito gli stia stretto: “Un giorno sarò presidente della Colombia”, ripete a chiunque sia pronto ad ascoltarlo. E cos’è la politica, se non la prosecuzione della criminalità con altri mezzi? O è forse vero il contrario? La leggenda del “Robin Hood paisà” è un pilastro della mitologia di Escobar; il palazzo, viceversa, ha perso ogni contatto con l’elettorato.

 

All’apice di una carriera inaugurata rubando lapidi nei cimiteri e presto indirizzata verso lidi più remunerativi, Pablo – sesto uomo più ricco del mondo secondo “Forbes” – fattura più di quanto possa immaginare di spendere (e riciclare). Ecco, allora, i miliardi di dollari sepolti nei campi o ammassati nelle soffitte, in balia dei topi. Ecco i lussi impensabili, come lo zoo privato della Hacienda Nápoles. Ecco i milioni infilati nella stufa per riscaldare la figlioletta durante un periodo di latitanza. Ecco, soprattutto, gli ospedali, le chiese, le scuole, i campi sportivi donati al popolo, di cui El Patrón s’intesta la rappresentanza. “Immagina di essere nato in una famiglia povera, in una città povera, in un paese povero – chiosa il narratore gringo – e di ritrovarti a ventotto anni con tanti soldi da non poterli contare: cosa faresti? Realizzeresti i tuoi sogni”.

 

 

La scalata alla presidenza passa da un seggio in Parlamento. La campagna elettorale – lubrificata dalle sempre più munifiche dazioni di Pablo – è un trionfo, ma l’esordio alla Camera offre un risveglio traumatico: il ministro della Giustizia lo umilia in Aula, denunciando i suoi traffici, che una stampa connivente aveva sottaciuto. Escobar si dimette e minaccia azioni legali per ristabilire il proprio onore incrinato; poi ci ripensa: perché indugiare con avvocati e querele, quando si può risolvere prontamente con un’ammazzatina? Per la Colombia è il fischio d’inizio di un’autentica guerra civile. Cadono, per decisione di Escobar, migliaia di persone: cittadini comuni, poliziotti, giudici (“negli Stati Uniti, la mafia fa sparire i testimoni perché non possano intervenire in tribunale; in Colombia, Escobar fa sparire il tribunale”) e politici, compreso un candidato alla presidenza; mentre, nel vano tentativo di colpirne un altro, Pablo non esita a sacrificare un volo di linea.

 

Da buon politico, Escobar spicca per la sua capacità di fare e disfare alleanze: non solo con gli altri membri del cartello di Medellin, a cui offre protezione in cambio di acquiescenza, ma persino con gli improbabili guerriglieri comunisti del “Movimento 19 aprile”: prima decimati, poi risparmiati, infine usati e sterminati. Il tutto con la benedizione del condottiero Simon Bolivar, in foggia di spada-reliquia. È indubbio che, nella discesa in campo del Patrón, convivano interessi personalissimi – l’immunità prima, la lotta all’estradizione poi – “meglio una tomba in Colombia, che una prigione negli Stati Uniti” – e un genuino, seppur malinteso, slancio sociale. A Carlos Lehder, pioniere delle rotte transamericane della coca e aspirante spin-doctor hitleriano, chiede aiuto per vendere la propria visione d’una politica al servizio dell’uomo comune, contro gli “uomini di sempre”.

 

Mentre insanguina il paese, il boss prende carta e penna e imbocca la via diplomatica, perché “lo scopo della guerra è la pace”. Offre d’addossarsi il debito estero della Colombia in cambio dell’amnistia e in seguito otterrà un risultato comparabile senza mettere mano al portafogli. Dove non arrivano lettere e rapimenti, lo fanno le ambasciate di Fernando Duque, losco trait d’union tra narcotraffico e governo, forse il personaggio più tragico della serie. Il capolavoro dell’Escobar politico è la costruzione della Catedral, il carcere di lusso con cui il Patrón usurpa la prerogativa ultima dello stato: la potestà punitiva. Circondato da detenuti e guardie di sua scelta, allietato da prostitute e aragoste, vi trascorre una detenzione che somiglia tanto a una vacanza di massima sicurezza.

 

La sfida tra i due poteri – quello riconosciuto e quello sotterraneo – induce a chiedersi se buoni e cattivi non finiscano per confondersi come in un western pigro. È un buono, per esempio, il presidente Gaviria, che capitola di fronte alle richieste di Pablo in nome di una pacificazione utopica? È un buono il colonnello Carrillo, che pur di sconfiggere il narcotraffico si trasforma in torturatore? Sono buoni gli americani, disposti a facilitare l’autocombustione del continente per perseguire una scriteriata “war on drugs” (e i connessi e più prosaici equilibri geopolitici)?

 

Una scena della terza puntata illumina la sottigliezza di questa contrapposizione. Gli uomini di Pablo si armano fino ai denti prima di un appuntamento. “Che cazzo fate?”, chiede il Patrón, “dovete incontrare dei politici, non dei mafiosi”. “Non sono la stessa cosa?”, replica un sottoposto; e il boss, di rimando: “I politici si spaventano più facilmente”. I due poteri hanno voci diverse, ma una grammatica comune: “plata o plomo”. Il solo criterio per decidere con chi schierarci, allora, è il “miraggio dell’autorità legittima” – per mutuare l’espressione di un prezioso e dimenticato giurista italiano, Ruggero Meneghelli. Ma se sappiamo che è un miraggio, perché continuiamo a inseguirlo? Ce lo rivela Escobar: “Le bugie sono necessarie quando è troppo difficile credere alla verità”.

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