L'architetto Zaha Hadid

L'irresistibile spietatezza dell'archistar Zaha Hadid

Simonetta Sciandivasci
Ha lavorato per il mondo intero, quindi anche per il suo. Non una parola, mai, sull'urgenza di una emancipazione femminile nel mondo arabo: lei il potere se l'è preso molto prima che quella emancipazione avvenisse e noialtri vedremo se mai avverrà.

Il posto più sbalorditivo al mondo, secondo Zaha Hadid, primo archistar femmina, nata a Baghdad 65 anni fa e morta ieri a Miami, nell'Occidente pentito, era la moschea di Cordoba. Lei, con quasi sempre due fidanzati per volta, un taxi di sua proprietà per spostarsi dentro Londra (dove viveva), prima donna ad aver vinto il Premio Pritzker (il nobel dell'architettura), che ha portato nello spazio le superfici scaturite dalla linea di Paul Klee (così ha scritto Sir Peter Cook, uno dei padri dell'Archigram, avanguardia architettonica che negli anni Sessanta flirtava con tecnologia e consumismo). Lei, che della condizione dei lavoratori migranti nei cantieri qatarioti per i mondiali 2022 ha detto "non è una mia responsabilità" e la prima volta che è stata chiamata a lavorare in Iraq (2010, per la Banca centrale irachena), dove è nata e cresciuta, era già la stronzissima diva dell'architettura più famosa al mondo, era la stessa donna che dentro una moschea credeva ci fossero l'origine e il futuro. E solo una rivoluzionaria pura come lei poteva avere uno sguardo tanto luminoso. Dentro la moschea di Cordoba, per Zaha Hadid, c'è già tutto il nostro presente e la sua ricerca ibrida.

 

Non una parola sul fatto che nelle moschee le donne non sono particolarmente gradite. Non una parola, mai, sull'urgenza di una emancipazione femminile nel mondo arabo: lei il potere se l'è preso molto prima che quella emancipazione avvenisse e noialtri vedremo se mai avverrà.

 

Zaha Hadid ha lavorato per il mondo intero, quindi anche per il suo. Era una privilegiata, certo: suo padre era un uomo influente, a Baghdad e in tutto l'Iraq, faceva l'industriale. Da bambina giocava con la matematica (ci si laureò, a Beirut, prima di trasferirsi a Londra per studiare alla Architectural Association). "I miei genitori mi hanno trasmesso la passione per la scoperta e non hanno mai distinto tra scienza e creatività", ha detto in occasione della mostra "Childhood ReCollection: Memory in Design" alla Roca London Gallery, lo scorso anno. E quel connubio non l'ha messo da parte mai: le era necessario per spingersi oltre. Rem Koolhas, attualmente uno degli architetti più influenti del mondo, nel cui studio Zaha mosse i primi passi, disse una volta che "Zaha è un pianeta nella sua inimitabile orbita: non avrà mai una carriera normale".


Un ritratto di Zaha Hadid realizzato da un designer italiano, Federico Babina (foto di Dezeen Magazine)


 

Le è stato rimproverato il suo essere oltre, perché l'ha resa sgradevole, odiosa, autoritaria (non autorevole, proprio autoritaria: nel suo studio di Londra, con quasi 400 architetti alle sue dipendenze, c'erano altoparlanti dai quali molto spesso la si sentiva urlare improperi ai collaboratori, con tanto di nome e cognome, in modo che tutti sapessero). Soprattutto, però, le è stato rimproverato l'eccessivo formalismo, l'autoreferenzialità, insomma l'ulissismo. Al Maxxi di Roma, il museo nazionale delle Arti del XXI secolo che ha la sua firma, la Galleria 5 ha un pavimento che provoca labirintite ai visitatori. Quando vinse il RIBA Award per il Galaxy Soho a Pechino, il Chinese Heritage Group criticò fortemente la scelta pubblicando la foto di un cinese che scappava dall'edificio a bordo della sua bicicletta (in verità si trattava di uno scatto estemporaneo, ma il punto era chiaro: l'edificio di Hadid era poco fruibile. Non era una donna di potere, ma una donna di potenza: andava incontro all'ignoto, quindi pure al fallimento. E probabilmente nemmeno si poneva il problema di provocare labirintiti al visitatore, altrimenti avrebbe progettato condomini.

 

Se ne fregava poco anche dei diritti umani, o almeno questo le imputavano. A settembre dell'anno scorso aveva litigato con una giornalista che durante un'intervista in radio le aveva contestato che, nei suoi cantieri in Qatar, i lavoratori immigrati sono ridotti in schiavitù (1200 sono morti, dall'inizio delle grandi opere per il 2022): sul Guardian, Oliver Wainwright aveva subito sottolineato che a nessun architetto più che a lei erano state rimproverate le condizioni di lavoro nei cantieri e, addirittura, una sorta di connivenza coi regimi dei paesi nei quali andava a progettare. Lo facevano con lei perché era una donna e perché era musulmana e allora, forse, ci si aspettava che fosse Lady D o Rania di Giordania. Ma Zaha Hadid era Zaha Hadid.

 

Progettava per darci un posto nello spazio, un posto sempre diverso, una radura sempre più rarefatta, che fosse accogliente non rispetto ai parametri del confort ma a quelli della sfida. Delle donne nelle cui mani sta il destino dell'Islam, Zaha Hadid non è stata la capopopolo, ma deve diventare l'esempio, la prova di come armarsi di talento conduca alla libertà, anche a costo di disincantarsi dalla soavità femminile. A lei non è stato permesso di essere un fiorellino, eppure carro armato non lo è diventata mai: Stefano Boeri ha scritto ieri sul'Huffington Post che era una stella di spietata bellezza. No, invece: non era la sua bellezza ad essere spietata, ma la sua spietatezza ad essere bella. E irresistibile e vittoriosa. Alle donne islamiche servirà essere spietate, non ireniche come Rania o Lady D: dovranno fregarsene di farsi capire, fregarsene di costruire confortevolezza. Dovranno accettare di essere sole.