Metamorfosi di Kafka è un film impossibile

Mariarosa Mancuso
Kafkiano e surreale sono due aggettivi mai usati a proposito. Il primo si applica a qualsiasi inciampo burocratico, quando non viene scomodato per un paio di chiavi dimenticate. Il secondo viene considerato una variante colta per “incredibile”, o al massimo, ma proprio deve andar di lusso, per “bizzarro”.

Kafkiano e surreale sono due aggettivi mai usati a proposito. Il primo si applica a qualsiasi inciampo burocratico, quando non viene scomodato per un paio di chiavi dimenticate. Il secondo viene considerato una variante colta per “incredibile”, o al massimo, ma proprio deve andar di lusso, per “bizzarro”. Compaiono accoppiati nelle righe di presentazione dell’elenco “I dieci migliori film ispirati a Frank Kafka” (sul sito Taste of Cinema, che come tanti altri fa sorgere la domanda: “Ma a parte noi che li andiamo saccheggiando per via di una rubrica da alimentare, troveranno mai abbastanza lettori per giustificare la fatica di chi li compila e li aggiorna?”).

 

Grandi Domande a parte, al posto numero 10 c’è “Inland Empire” di David Lynch (di cui abbiamo già detto tutto il male possibile, rischiando il linciaggio da parte dei fan). Brutta partenza, conviene salire subito al posto numero 1 per essere certi che non stiamo perdendo tempo (certe gallery, va pur detto, fanno morire di noia, mentre rivolgiamo un pensiero alla pagina scritta, almeno si corre veloci). Bel colpo, c’è “After Hours” di Martin Scorsese, girato nel 1985. La peggiore nottata nella vita di Griffin Dunne, che incontra solo gente fuori di testa. Camerierine che in calce al conto, là dove bisognerebbe aggiungere la mancia, scrivono appelli disperati. Signorine legate come un salame, che mugolano da sotto il bavaglio. Il nostro eroe libera dai legacci la damigella in difficoltà, e un attimo dopo viene menato dalla medesima: era un elaborato bondage a scopo erotico, di quelli che richiedono un sacco di tempo.

 

Al numero tre, sorpresa, spunta un film italiano, “L’udienza” di Marco Ferreri, anno 1972 con Enzo Jannacci che – fa notare il compilatore della lista – “ha una sola espressione dall’inizio alla fine del film, e per una volta non è un difetto”. Il giovanotto arriva a Roma con l’intenzione di parlare con il Papa. “Anche nel suo interesse”, specifica a chi si mette di mezzo come il commissario Diaz, alias Ugo Tognazzi (arriverà a presentargli Claudia Cardinale, prostituta dal gran cuore e in cerca di redenzione, senza la quale un film italiano – anche di un guastatore come Marco Ferreri – non può dirsi completo).

 

[**Video_box_2**]In quinta posizione, “Brazil” di Terry Gilliam. Perfetto per l’invenzione degli schermini da computer ingranditi con le lenti, e per i tubi che nessuno può riparare da solo, pena la galera. Intanto meditiamo sul fatto che – a parte un cortometraggio di Peter Capaldi premiato con l’Oscar (“Franz Kafka’s Ir’s a Wonderful Life”) – nessuno ha mai tentato una versione per il cinema di “La metamorfosi”. Un motivo c’è. La frase d’inizio – “Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si ritrovò trasformato in uno scarafaggio” – è così veloce e spaventosa che nessun effetto speciale può batterla.

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