Perché non ne possiamo più dei supereroi al cinema

Mariarosa Mancuso
Esistono molti motivi per non poterne più dei supereroi. L’esagerato numero di pellicole messe in cantiere dalla Marvel, che ha un repertorio inesauribile di personaggi.

Esistono molti motivi per non poterne più dei supereroi. L’esagerato numero di pellicole messe in cantiere dalla Marvel, che ha un repertorio inesauribile di personaggi. I remake (che raccontano una vecchia storia a uso delle nuove generazioni e soprattutto a uso dei nuovi maghi degli effetti speciali). I reboot (che invece la storia la ricominciano da capo, provvedendo a un nuovo mito di formazione). Gli intrecci tra un film e l’altro: alla fine di “Ant-Man”, le promesse di inciuci tra l’uomo-formica e “The Avengers” sono talmente tante che temiamo un incesto.

 

A furia di frequentarsi – perché non è più come nei fumetti, dove i personaggi sembrano clonati di giornaletto in giornaletto – cosa succederà tra la Vedova Nera Scarlett Johansson e l’Incredibile Hulk di Mark Ruffalo? Nell’ultimo film, lei sapeva come calmarlo e farlo ridiventare umano (oltre che piccolo e non più verde). Nei cinema americani è uscito un “Fantastic Four” già disconosciuto dal regista Josh Trank, che ne ha scritto peste e corna su twitter, salvo poi pentirsi. Seguono “X-Men” e uno “Spider-Man” – per il numero progressivo ormai non bastano le dita di una mano. Su tutti, troneggia l’attesissimo “Batman contro Superman” di Zach Snyder.

 

Non ne può più dei supereroi neppure Liel Leibowitz, che ha scritto su Talent un articolo intitolato “To Save American Judaism, Say No to Superheroes”: basta con i supreroi, se vogliamo salvare l’ebraismo americano. I supereroi potevano servire, ammette, per placare le ansie degli ebrei scappati dall’Europa negli anni trenta. O per gli ebrei che faticavano a integrarsi: era bello credere che sarebbe bastato togliersi gli occhiali e cambiarsi velocemente in una cabina telefonica per essere acclamati da chi prima ti disprezzava. Anche la doppia identità aveva il suo fascino, se non la sua necessità come scrive l’altro Singer, Israel Joshua, in La famiglia Karnowski: “comportarsi da ebreo in casa e tedesco fuori casa”.

 

Sono stati creati da bravi ragazzi ebrei (nel caso di Superman, Jerry Siegel e Joe Schuster, l’anno era il 1933). Hanno fatto il loro dovere a lungo, a dispetto dei molti tentativi di far diventare l’ultimo dei kryptoniani - Kal-El, mandato dai genitori infante verso la terra, dove si chiamerà Clark Kent - una figura cristologica. Accade in “L’uomo d’acciaio”, diretto nel 2013 da Zach Snyder (lo stesso che prepara l’accoppiata con Batman, sottotitolo “Dawn of Justice”: il film uscirà a marzo negli USA). Smentiscono ogni tentativo di leggere Gesù come il primo dei supereroi la storia del fumetto e della cultura pop americana (raccontata benissimo da Michel Chabon nel romanzo “Le fantastiche avventure di Kavalier & Clay”).

 

[**Video_box_2**]Ora però siamo nel 2015, venti anni dopo la serie tv “Seinfeld”. La kabbala piace a Madonna e alle celebrità tutte. Molte parole yiddish sono entrate nell’inglese. Sarebbe ora di cambiare, suggerisce Liel Leibowitz, e invita a studiare il Talmud. Non possono bastare i bagel, “Io e Annie”, Superman e altri eroi sempre meno filologici, a fondare un’identità.

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