Jihad di provincia
Viaggio nelle periferie tra Roma e Latina, ora diventate scalo degli attentatori dello Stato islamico. Tra fabbriche che chiudono, agricoltori in crisi e criminalità
Uno dei teorici delle tecniche di reclutamento dello Stato islamico, Abu Mus’ab al Suri, pubblicò nel 2004 un saggio dal titolo “La chiamata alla resistenza globale islamica”. Al Suri spiegava come esportare l’ideologia jihadista fino in Europa tramite la conversione dei più giovani, puntando sul malessere socio-politico delle province e delle zone periferiche delle città. Le storie di Ahmed Hannachi, Khaled Babouri e Anis Amri, tre degli attentatori reclutati dallo Stato islamico che sono passati per l’Italia centrale, si legano a un territorio con diverse somiglianze rispetto all’identikit tracciato nel manuale di al Suri. L’area di Aprilia è ampia, ha la stessa estensione di quella di Milano e separa la provincia di Roma da quella di Latina lungo un paesaggio di campi coltivati, serre e casolari che si susseguono per chilometri. Dopo gli anni Ottanta, e con la fine degli investimenti massicci della Cassa del Mezzogiorno, la crisi economica ha colpito in modo drammatico questa terra di mezzo. Così, molte fabbriche chimiche e farmaceutiche che impiegavano migliaia di residenti sono state costrette a chiudere. Alcune, quelle lungo la via Pontina e la via Nettunense che corrono tra Roma e Latina, resistono tra scioperi e tagli del personale. La popolazione nel frattempo è cresciuta, al punto che per affrontare l’emergenza abitativa i nuovi piani edilizi di Aprilia e Latina hanno finito per allargare il perimetro edificabile in modo selvaggio. Nei quartieri Q4 e Q5 di Latina e nei lotti popolari dietro il quartiere Toscanini di Aprilia sono nate periferie nella periferia, zone degradate, costruite in molti casi con controlli blandi da parte degli enti locali. E su cui, negli anni, la criminalità organizzata ha messo le mani. Da Aprilia sono passate famiglie legate alla ‘ndrangheta, alla camorra e a Cosa Nostra. Carmine Schiavone, ex cassiere del clan dei Casalesi, affermava che “Latina era provincia di Casale”. Personaggi esotici come Frank “tre dita” Coppola, braccio destro di Lucky Luciano, per lungo tempo hanno legato il proprio nome a questa terra. I Gangemi e la famiglia nomade dei Di Silvio si sono arricchiti grazie al business dell’edilizia, al traffico di droga, al riciclaggio di denaro, agli appalti pubblici.
Un imam riconosciuto dallo stato dà garanzie sia ai cittadini sia alla comunità", dice il presidente della comunità islamica di Latina
E’ in un contesto così degradato, alle porte di Roma, che è in corso quella che diversi imprenditori locali sentiti dal Foglio hanno definito “una guerra tra poveri” tra residenti e immigrati. Il sistema di integrazione nella zona di Aprilia si basa ancora su logiche emergenziali, poco adatte a un ambiente dove criminalità, mancanza di lavoro e crisi economica hanno già stravolto il tessuto sociale. Viviamo in zone che sono “lembi di un tappeto che le istituzioni alzano per nascondere la polvere che tolgono dal loro territorio centrale”, spiega al Foglio Paolo Pesciatini, che ha creato un’associazione di quartiere, quella di “Casello 45”, che dista chilometri dal centro di Aprilia. “Solo qui ci sono 55 nuclei abusivi mentre in molte zone mancano i servizi essenziali. Il sistema fognario non arriva ovunque e ce lo siamo scavati da soli. Poi sono arrivati anche gli immigrati”. Attorno solo campi e serre coltivate, sempre più spesso abbandonati per la crisi che ha colpito anche il settore agricolo. Qualche strada più in là, nella frazione di Campoverde, nel luglio del 2015 ha vissuto per qualche giorno Anis Amri, poco prima di andare in Germania, dove nel dicembre dell’anno dopo ha ucciso 12 persone al mercatino di Natale di Berlino in un attentato rivendicato dallo Stato islamico. Il suo rifugio temporaneo era una villetta di via Virgilio, una strada di campagna che prosegue fino a Velletri. Anis era ospite di un amico, il connazionale Montasar Yakoubi. Arrestato per droga, Montasar era in carcere a Velletri quando Amri ha alloggiato a casa sua. Poi, non appena gli inquirenti hanno ricomposto la catena di amicizie del giovane attentatore del Califfato, Yakoubi è stato rimpatriato in Tunisia.
Se del soggiorno di Anis a Campoverde si sa poco, quello di Ahmed Hanachi – che lo scorso 1° ottobre ha accoltellato due ragazze alla stazione di Marsiglia – è più dettagliato. Nel 2008 sposa una donna italiana di 10 anni più grande di lui, Ramona Cargnelutti. I due vivono in via Guido Rossa, una zona di Aprilia molto diversa da quella del casolare di Amri. Palazzi moderni, “famiglie perbene”, dicono i residenti parlando di chi vive nel quartiere. Ahmed ha un regolare permesso di soggiorno ed è definito uno dei componenti della comunità tunisina “integrata” col territorio. Ma il giovane si dedica soprattutto allo spaccio di droga, ai furti (la polizia lo arresta due volte) e all’alcol, gli piacciono la musica da discoteca e i vestiti alla moda. Nessun legame evidente con movimenti estremisti, nemmeno dopo la separazione dalla moglie. Eppure, secondo alcuni testimoni, Ahmed avrebbe urlato “Allahu Akbar” poco prima di assassinare le due ragazze a Marsiglia, un attentato rivendicato da Amaq, il consueto canale di comunicazione usato dall’Isis. La polizia italiana ha arrestato a Ferrara uno dei fratelli, Anis, sospettato di avere indottrinato e forse addestrato Ahmed; quella svizzera ha fermato un altro fratello, Anouar, segnalato dall’intelligence francese per i suoi legami con il terrorismo islamico; gli ultimi due, Moez e Amina, sono stati arrestati in Tunisia per poi essere liberati perché ritenuti non coinvolti nella radicalizzazione di Ahmed e nell’attentato di Marsiglia.
La realtà della comunità tunisina in provincia è fatta di nuclei famigliari che sono qui da anni, spiega al Foglio Sihem Zrelli, che è presidente dell’Associazione “La Palma del Sud”. “Qui ci sono soprattutto famiglie integrate, che si sono trasferite nella zona di Aprilia da molto tempo”. Ahmed Hanachi, che pure ha vissuto ad Aprilia per diversi anni, sembra non lo conosca quasi nessuno tra i tunisini della zona. “Qui di certo non è mai passato”, racconta al Foglio Ramzi Hamam, il responsabile del Centro culturale islamico “La Pace e Dawa”, un locale commerciale che nella zona periferica di Aprilia, vicino viale Europa, è stato adibito a luogo di preghiera. Di fronte, case popolari, motorini smembrati e abbandonati. Al comune non sanno nulla di questa associazione, che tra i fedeli musulmani di Aprilia e dintorni è nota come “la moschea”. “Come si chiama scusi? Guardi, non l’ho mai sentita nominare. Non è registrata, non abbiamo contatti con loro”, ci dicono al municipio. Nelle campagne attorno ad Aprilia sembra che esistano molte altre “moschee” che ufficialmente non sono riconosciute dagli enti locali. “Non siamo abusivi. I carabinieri sanno tutto di noi, di quello che succede qui dentro.
Al Suri spiegava come esportare il jihad in Europa convertendo i più giovani, puntando sul malessere socio-politico delle province
Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, ha confermato che a Latina e provincia – così come nel resto del nostro paese – non esistono cellule terroristiche coordinate. Piuttosto, negli ultimi mesi, sono emersi alcuni casi isolati. Oltre a Triki, il tunisino che faceva proseliti fuori dal centro culturale islamico di Latina, ce ne sono stati altri. Il 20 gennaio di quest’anno è stato espulso un altro tunisino senza fissa dimora perché – dice la stampa locale – alla mensa Caritas cittadina lo avevano sentito urlare “Allahu akbar”. Le cronache riferiscono che non apprezzava il pasto servito e che, preso dalla rabbia, abbia cominciato a urlare di volere vendicare l’uccisione di Anis Amri. In una conversazione telefonica col Foglio, forse per difendere la comunità che assiste ogni giorno, la Caritas ha smentito l’accaduto. Ma il 25 febbraio – sempre col decreto Minniti – è stato espulso un altro tunisino, Moez Guidaoui, 44 anni, perché il suo numero era nella rubrica telefonica di Anis Amri. Infine, Hisham al Haabi, 37enne di Borgo Montello, rispedito in Tunisia perché fuori dal centro culturale islamico di Latina avrebbe distribuito volantini contro Abderrahman el Hamdu, un ex imam moderato assegnato a Latina su decisione dell’università islamica di al Azhar, in Egitto.
"Molti immigrati arrivano in Italia per guadagnare soldi. Se non trovano le condizioni per farlo con le buone, lo faranno con le cattive
Viene difficile immaginare come possa avere seguito un progetto simile in un territorio come quello di Latina, storicamente conservatore e dove cominciano ad affacciarsi i partiti sovranisti come “Noi con Salvini”. Il problema dell’accoglienza degli immigrati – che in provincia sono meno di 700 tra rifugiati e richiedenti asilo – in alcuni casi ha reso difficile la convivenza con i residenti. “Qui il vero rischio non è il radicalismo di questa gente – dice Pesciatini, dell’associazione “Casello 45” – ma che ci radicalizziamo noi”. La zona di Aprilia è stata prescelta dalla prefettura come area dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas). I richiedenti asilo o i rifugiati sono alloggiati in strutture messe a disposizione dalle cooperative sociali vincitrici di un bando di concorso. In un sistema del genere i comuni non hanno alcuna voce in capitolo e i malumori tra i residenti aumentano, soprattutto in quelle zone periferiche che già si considerano dimenticate dalle istituzioni. Pesciatini ci racconta che una settantina tra rifugiati e richiedenti asilo sono ammassati in una vecchia casa di riposo del suo quartiere. Impossibile sapere come possano convivere decine di persone in una struttura grande, ma non abbastanza da contenere numeri simili. “Noi abbiamo paura perché questi girano liberamente per il quartiere, abbiamo le nostre figlie, le nostre donne”. Incontriamo un altro residente, disoccupato. Ogni sera dopo cena si mette in macchina con una mazza da baseball e fa una ronda nel quartiere: “Controllo, giro. Anche perché qui i furti sono aumentati, guarda caso proprio dopo che sono arrivati questi”, ci dice. “Qui non possono stare, non così. Questa è già una zona con tanti problemi. Giovani disoccupati, niente controlli della polizia. Loro sporcano, bevono al bar, passano il tempo a non fare nulla”, spiega Pesciatini.
Viviamo in zone che sono lembi di un tappeto che le istituzioni alzano per nascondere la polvere che tolgono dal territorio centrale