Una manifestazione di Greenpeace (foto LaPresse)

Il dibattito sull'ambientalismo conferma che ormai si pensa più all'immediato che al domani

Giorgio Zanin*

Una delle sfide della modernità è l’eccesso del presente Ma la cultura ambientalista richiede conoscenza delle relazioni lunghe di causa-effetto

Al direttore,

la discussione sull’ambientalismo in politica ha ripreso vigore a rimorchio di qualche tragedia collegata al cambiamento climatico. Come d’abitudine, si potrebbe dire, anche perché la miopia cronica non è questione che riguarda solo il ceto politico. Tanto meno è una questione solo della sinistra, anche se l’autocritica aperta da Walter Veltroni è stragiustificata. La verità è che i richiami del futuro sul nostro presente, invece che della linearità del raziocinio e delle evidenze dei dati scientifici, paiono aver bisogno delle tinte pulp per fare breccia e stimolare la nostra attenzione momentanea. Questo è il vero problema. Questo è il segno dei tempi che dobbiamo comprendere in profondità per poterlo affrontare.

 

Le tragedie del passato obbligavano a surplus di attenzione, imponevano scelte concepite per orizzonti lunghi. Ho un esempio in mente, quello del sisma friulano del 1976, di cui abbiamo ricordato pochi mesi fa il quarantennale. Quello rimane come esempio emblematico non soltanto di un popolo coriaceo e concreto, ma anche di una classe dirigente capace di alzare lo sguardo lontano, proprio mentre le circostanze la piegavano a terra. Prepararsi al futuro in verità faceva parte costante delle attenzioni delle famiglie. Era per costruire il futuro che si doveva andare a scuola. Era per il futuro che bisognava mettere da parte le risorse, risparmiare. Persino la cura dei rapporti sociali e familiari erano segnati dal rispetto e dall’osservanza di codici etici figli dalla volontà di non “rompere” e perciò di non mettere a repentaglio l’avvenire. L’ethos popolare e familiare ispirato dalla volontà e dall’ottimismo verso il futuro, finiva per ispirare anche l’ethos pubblico. Saper attendere, preparare le cose, progettare gli interventi, mirare a creare le condizioni utili a realizzare cose giuste e utili alla collettività, guardare avanti e fare un passo dietro l’altro, questo era lo stile e la strategia di chi aveva responsabilità fino a non troppi anni fa. Persino il lessico dei ministeri era diverso: a prescindere da un giudizio sulla qualità buona o scarsa, parlavano in termini di “piani” e non di decreti.

 

E ora invece? Siamo in un’altra epoca e non è una colpa. Una delle sfide della modernità è l’eccesso del presente, è la mole continua di input che si abbattono nel nostro campo vitale e che attendono una risposta “qui e ora”. Il rapporto tra causa ed effetto pare non reggere un’attesa superiore a qualche giorno. L’eclissi del futuro è dunque l’altra faccia di questo eccesso. Le agende politiche scariche di prospettiva sono figlie di questo cambio d’epoca. Un’epoca in cui le rendite non derivano dall’arte metodica e spirituale del contadino, ma dalla compulsività dell’azzardo generata dalle quotazioni di borsa. In questo contesto culturale è un vero esercizio acrobatico immaginare dunque una classe politica con lo sguardo fisso sul futuro. Troppi riflessi immediati, troppe convenienze prossime condizionano la visione e limitano l’azione. Non solo le scadenze elettorali.

 

Il caso del rinvio della legge sul cosiddetto ius culturae pare in questi giorni l'esatta conferma di questo processo di frantumazione, di questo eccesso di presente. Dopo il tramonto delle ideologie, l’eclissi del futuro segna in modo indelebile la traiettoria delle democrazie, al punto da rendere tollerabile qualsiasi sperimentazione: anche la Brexit, anche Trump può andare bene per vedere l’effetto che fa, nella convinzione che i danni eventualmente provocati da una scelta riguardino solo l’immediato. Insomma, la cittadinanza dell’iper-presente genera la politica della reversibilità più che dell’alternanza. Anche i leader si possono far emergere e sostituire in poco tempo. Un gattopardismo populista del terzo millennio si direbbe, in cui va bene tutto perché finirà presto per non andare bene niente, in una deriva del tutto inadeguata alle necessità. La cultura ambientalista viceversa richiede conoscenza delle relazioni lunghe di causa-effetto. Mentre la generazione che a detta dei sondaggi ha i temi ambientali in testa alla lista delle sue sensibilità, pare immersa in un cortocircuito culturale: vorrei ma non non mi interessa, verrebbe da dire. L’offerta politica deve dunque saper intercettare questa contraddizione. E le persone già attrezzate per questa battaglia di lungo corso, indispensabile per riportare il futuro al centro delle scelte, devono spiegarla ai cittadini senza nascondere la sua componente impopolare, per chiedergli il consenso alle ormai prossime elezioni politiche. Questa è la prima vera sfida con cui fare i conti, si spera prima del prossimo allagamento.

 

*deputato Pd

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