Guido Rossi (foto LaPresse)

Guido Rossi, borghese di lotta e di governo che criticava la finanza. Sguazzandoci

Stefano Cingolani

Consob, Telecom, calcio e l'influenza della "giudicatura". Il ricordo di un protagonista della vita italiana con una personalità per molti versi traboccante

Roma. Guido Rossi, che si è spento all’età di 86 anni, è stato un protagonista della vita italiana con la sua personalità per molti versi traboccante. I liberisti potranno definirlo l’uomo che voleva mettere le brache al mercato: “La disciplina nei giuochi del mercato è l’unica autentica garanzia di corretto funzionamento del sistema capitalista”, aveva scritto nel 1983. I giuristi lo ricorderanno come il nemico dei monopòli con l’ossessione per la regolamentazione (“Il gioco delle regole” è uno dei suoi ultimi saggi di grande successo, pubblicato nel 2003). Per la sinistra “indipendente” (è stato senatore dal 1987 al 1992, eletto nelle liste del Pci) è l’intellettuale che ha contribuito a sdoganare un capitalismo ben temperato, lanciandosi contro la degenerazione del modello italiano “dall’economia mista all’economia confusa” (Corriere della Sera, 1984) e accusando “la giungla della Borsa” (“Trasparenza e vergogna” è il titolo di un altro suo saggio famoso).

 

Grande avvocato con laurea a Pavia e master a Harvard, alto, imponente, elegante nelle sue sciarpone bianche o rosse girate attorno al collo, Guido Rossi è stato ad un tempo sostegno e frusta per l’establishment, uomo d’azione e di sistema, il sistema dell’alta finanza all’interno del quale agiva e che dal di dentro criticava. Si è battuto per primo a favore di una legge che introducesse in Italia l’antitrust “novant’anni dopo gli Stati Uniti” (come soleva sottolineare), ha presieduto la Consob, la commissione per il controllo della Borsa, ma anche la Montedison dopo il crac della famiglia Ferruzzi, o la Telecom Italia in via di privatizzazione nel 1997 (sfidando le polemiche su potenziali confitti d’interesse). Ha gestito persino la Federazione giuoco calcio all’indomani di calciopoli nel 2006 (lui che sedeva nel consiglio di amministrazione dell’Inter e per questo fu messo sotto tiro soprattutto dagli ambienti juventini travolti dal “modello Moggi”). Tra le ultimissime battaglie intellettuali si può ricordare la difesa dell’euro incrociando i ferri polemici con Paul Krugman, pur criticando l’austerità: “Il rapporto tra il debito degli stati e le sovranità popolari rimane incerto e inquietante”, ha scritto cinque anni fa.

 

Non è mai mancata la gara a tirare per la giacchetta, sempre di ottimo taglio, questo “gran borghese” al pari di Bruno Visentini o Enrico Cuccia (nonostante le differenze e le dissonanze tra loro), formatisi in un coté intellettuale e politico “azionista”. Lui che figurava tra i principali contribuenti scriveva: “Anziché badare esclusivamente alla difesa del sistema finanziario, che invece necessita di una rigorosissima nuova regolamentazione, occorre che le politiche economiche e sociali si orientino all’eliminazione delle disuguaglianze, per assicurare ai cittadini la priorità dei diritti che Norberto Bobbio usava chiamare di prima e di seconda generazione, piuttosto che soddisfare l’interesse dei creditori, da pagare col sacrificio dei contribuenti”. Le sue prestazioni professionali non erano esattamente egualitarie, ma questo è il mercato, pur con tutte le regole di questo mondo. Offriva i servigi professionali ad ampio spettro, a Silvio Berlusconi e a Carlo De Benedetti durante la “guerra di Segrate” per il controllo della Mondadori, così come a Cesare Geronzi che difese negli scandali Parmalat e Cirio.

 

La stampa popolare ricorderà soprattutto lo scudetto assegnato a tavolino all’Inter. Peccato, perché l’eredità di Rossi merita di essere discussa sul serio per l’impronta lasciata nel percorso che ha condotto verso la egemonia della “giudicatura”, come sostiene un famoso giurista francese, Robert Badinter, l’uomo che, come ministro di François Mitterrand, abolì la pena di morte nel 1981. In altre parole, un processo che mette il giudice al centro della vita economica e di quella politica, attribuendogli un ruolo sacrale: il magistrato ha assorbito via via il ruolo del prete, dell’imprenditore, del sindacalista, del capo di partito, non è più solo arbitro o deus ex machina, è l’uomo che fa girare gli ingranaggi. La questione morale ha aperto la strada, poi, con l’eclisse del Partito comunista, la giudicatura ha conquistato l’egemonia a sinistra, ma è servita anche da grande alibi nazionale. Intendiamoci, Guido Rossi non smetteva di scrivere che la politica deve riprendere il proprio posto, ma in fondo riteneva che i tempi, almeno in Italia, non fossero maturi.

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