Ipotesi su Foggia

Alfredo Mantovano*

Cosa non funziona nel contrasto militare contro la criminalità pugliese. Errori da non rifare

Il 18 novembre 2010, fra Vieste e Peschici sono sequestrati due fratelli, Giovanni e Martino Piscopo, titolari di un villaggio turistico. I loro corpi vengono trovati carbonizzati dopo dieci giorni, con segni di torture: le indagini accerteranno che l’esecuzione dipende da sgarbi a un capo bastone del luogo dei due sventurati imprenditori. Dopo il rinvenimento dei cadaveri la polizia giudiziaria, seguendo una consueta modalità di indagine alla ricerca di tracce dei responsabili, mette sotto controllo un gran numero di telefoni fissi e mobili e inserisce ovunque, nella zona interessata dal duplice omicidio, strumenti per l’intercettazione ambientale. Per quanto incredibile, da nessuna delle migliaia di conversazioni ascoltate arrivano particolari utili; addirittura nessuno parla dell’episodio! L’omertà, prima ancora che verso gli inquirenti, viene esercitata verso sé stessi e con chi è vicino.

 

È uno dei tanti casi di effetto-intimidazione derivante dal vincolo associativo: quel che connota l’associazione di tipo mafioso. C’è voluta la Corte di appello di Bari appena un mese fa per qualificare “mafia” la criminalità garganica, dal momento che in precedenza i giudici foggiani l’avevano sempre esclusa. Ci sono voluti quattro morti ammazzati nei 40° della campagna di S. Marco in Lamis per far guadagnare a questa realtà le prime pagine e le aperture dei media nazionali. Fuori dai confini territoriali, pochi finora hanno parlato della efferatezza delle sue gesta: associandola riduttivamente a una faida fra pastori, o al contrario – come accade anche in queste ore–- assimilandola a una generica “mafia foggiana”, quando le associazioni per delinquere che operano nel Gargano, nel foggiano e a Cerignola sono distinte e diverse l’una dall’altra. All’errore di valutazione è corrisposta una frequente sciatteria della magistratura giudicante: che, oltre a escludere i profili di mafiosità pur quando erano evidenti e comprovati – come si è detto, fino a pochi giorni fa a Bari –, in altri casi ha fatto scadere i termini della custodia cautelare per i responsabili di gravi crimini. E’ la ragione per la quale un personaggio come Franco Li Bergolis, benché condannato all’ergastolo (sia pure in via non definitiva), si è ritrovato a piede libero nell’estate 2008, e quindi ha ripreso la propria attività fatta di omicidi, di taglieggiamenti e di traffico di droga.

 

Vanno evitati alcuni errori: a) non è vero che nessun magistrato se ne è finora seriamente interessato. Basta ricordare Domenico Seccia (la cui descrizione nel libro La mafia innominabile, ed. La meridiana, è del 2011): era procuratore della Rep. a Lucera, nella cui circoscrizione rientrava il Gargano. Peccato che l’ufficio da lui diretto sia stato soppresso due anni fa, per atto del governo Monti, confermato dagli esecutivi successivi. O Antonio Laudati, che se ne è occupato attivamente quando era procuratore distrettuale a Bari: ufficio che ha dovuto lasciare per accuse giudiziarie poi rivelatesi infondate;

b) non è vero che nessun governo abbia affrontato la questione. Minniti ha fatto benissimo a convocare a Foggia un Comitato nazionale per la sicurezza; ma il ministro dell’Interno che per primo ha trattato con sistematicità la criminalità garganica è stato Roberto Maroni, che a Manfredonia, alle porte del promontorio, nel luglio 2010 ha presieduto il Comitato di avvio di una serie. L’esito della riorganizzazione che ne venne fuori ha permesso, con una razionale e coordinata divisione del lavoro tra le forze di polizia, la cattura dei due principali capiclan che dalla latitanza continuavano a dirigere le attività criminali, Franco Li Bergolis, e Giuseppe Pacilli. Il lavoro che ne è seguito, fatto per due anni di Comitati mensili dedicati in esclusiva all’area garganica, aggiornava il contrasto al perseguimento degli obiettivi, con forze e mezzi - anche avveniristici – adeguati agli stessi. Peccato che i governi seguenti lo abbiano lasciato cadere;

c) non è vero che non vi sia disponibilità a collaborare: già dal dicembre 2009 a Vieste, uno fra i centri più esposti all’aggressione criminale, un gruppo di imprenditori – in larga parte operatori del turismo – hanno formato la prima associazione antiracket e sono arrivati a costituirsi parte civile, rischiando in prima persona. Peccato che i giudici di Foggia – come si è detto – abbiano escluso l’aggravante mafiosa;

d) è vero invece che l’indifferenza e l’ambiguità dei media fino a due giorni fa non è stata solo nazionale: quando Maroni si è recato a Manfredonia, preceduto nella stessa città poche ore prima da una marcia con migliaia di persone, le pagine foggiane del principale quotidiano pugliese, dopo aver riservato un trafiletto al rappresentante del governo, dedicavano invece un lungo articolo a una lettera che Li Bergolis indirizza dalla latitanza al Capo dello Stato e ad altre autorità per proclamare la propria innocenza e chiedere un “processo giusto”! La presenza ieri in zona del ministro dell’Interno ha senso se farà riprendere il contrasto militare e il recupero del consenso della popolazione, abbandonato da quando sono arrivati i governi “buoni”. Urgono costanza, intelligente e ordinaria attenzione.

 

*ex sottosegretario all’Interno

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