La caccia a Johnny lo Zingaro

Giulia Pompili

E’ stato trovato in provincia di Siena, dopo l’ennesima fuga, questa volta durata meno di un mese. Ma Giuseppe Mastini è più di un criminale, è l’anima nera di Roma

Dimentica le nostre facce e stai tranquilla. Tanto non ci prenderanno mai. Così aveva detto Giuseppe Mastini, meglio conosciuto come Johnny lo Zingaro, alla ragazza sequestrata quasi per caso la notte del 23 marzo del 1987 all’angolo tra via Ridolfino Venuti e piazza Winckelmann, sul confine tra il quartiere Nomentano e la borgata Pietralata. Non ci prenderanno mai. Una frase smentita già due volte: la prima, meno di ventiquattr’ore dopo averla pronunciata. Era scappato a piedi nei boschi tra Mentana e Palombara Sabina, nella periferia nord-est della Capitale, in mezzo al fango e alla marana. Ma poi era stato lui stesso, lo Zingaro, a consegnarsi alle autorità, ponendo fine a quelle famose “venti ore di sangue e di follia”.

 

Non ci prenderanno mai. La seconda smentita è arrivata l’altro ieri sera, a Taverne d’Arbia, in provincia di Siena. Giuseppe Mastini, cinquantasette anni, ergastolano evaso, si nascondeva qui, nella casa della sorella di Giovanna Truzzi, anche lei evasa dagli arresti domiciliari che stava scontando a Pietrasanta. I due hanno una relazione, come quella che lo Zingaro aveva con Zaira Pochetti, trascinata pure lei, come Giovanna – peggio di Giovanna – in una fuga violenta e dal tragico epilogo, trent’anni fa. Zaira aveva solo vent’anni. Veniva da una famiglia di pescatori di Passoscuro, poco più a nord di Fregene. Era la donna di Mastini, forse era perfino incinta. Le cronache dell’epoca, subito prima dell’arresto, la descrivevano sicura di sé, violenta, lo stereotipo della donna del gangster. Ma Zaira era tutt’altro, e gli investigatori se ne accorsero troppo tardi. E’ morta di anoressia e di stenti, un anno dopo essere stata arrestata in quel tragico giorno del 1987.

 

Cinquantasette anni, ergastolano, si nascondeva nella casa della sorella di Giovanna, la sua compagna, anche lei evasa

Da ieri le immagini del blitz della polizia sono su tutti i telegiornali: si vede Mastini che apre la porta a quello che crede essere un fattorino. Devono consegnargli un materasso nuovo, per la sua nuova vita a Taverne con Giovanna. Ma da giorni la polizia sorveglia tutta la famiglia Truzzi. Lo Zingaro fa un gesto col pollice, sembra voler dire “okay” al finto fattorino, si allontana dalla porta e si prepara ad accogliere il nuovo materasso. Entra la polizia. E’ la fine. Dice a Giovanna – lo si può ascoltare in un audio diffuso dalla polizia – “T’amo più della vita mia”. I poliziotti sono tutti a volto scoperto, tutti protetti soltanto dai giubotti antiproiettile. Strano, per uno che sta scontando un ergastolo anche per aver freddato un poliziotto, durante quelle “venti ore di sangue e di follia”, trent’anni fa.

 

Era uscito alle 8 di venerdì 30 giugno dal carcere di Fossano, in provincia di Cuneo. Avrebbe dovuto raggiungere la scuola di polizia penitenziaria di Cairo Montenotte, nel savonese, dove era stato assegnato da sette mesi al lavoro esterno. Ma lo Zingaro quel giorno a Cairo Montenotte non ci era mai andato. Arrivato nel centro di Cuneo, intorno ‪alle 9 e 30, era salito su un taxi: “Portami a Genova. A una stazione ferroviaria, scegli tu quale”, aveva detto al tassista, secondo la ricostruzione di Tommaso Fregatti del Secolo XIX. Da Cuneo a Genova sono quasi due ore di viaggio, e il tassametro indica duecentottanta euro: Mastini paga in contanti. I detenuti che svolgono lavoro all’esterno sono pagati circa sei euro netti all’ora. Quei soldi sono a disposizione di Mastini, che lavora già da novembre. A mezzogiorno le telecamere della stazione di Genova Brignole lo riprendono, ma gli investigatori non possono vederlo salire su un treno, quelle immagini non ci sono. Mastini è sparito. Di nuovo.

 

Nato nel 1960 a Ponte San Pietro di Bergamo da una famiglia di giostrai nomadi – da cui il noto soprannome – a dieci anni si trasferisce con la famiglia a Roma. Vive in una roulotte nel quartiere Pietralata, lo stesso di “Una vita violenta”, il romanzo di Pier Paolo Pasolini. E tutto si tiene, in questa storia di violenza e barbarie romana che dura da mezzo secolo. Perché nel 1987 il nome di Mastini finisce pure nelle indagini sull’omicidio di Pasolini. Ma per capire quanto tutto questo abbia a che fare non solo con la criminalità, ma con il più buio luogo dell’umana coscienza, bisogna andare con ordine.

 

La prima volta in carcere per lo Zingaro risale al 1976. Entra nel minorile di Casal del Marmo, dove c'è pure Pino Pelosi

Già noto alle forze dell’ordine per rapine e furti d’auto, la prima volta in carcere per lo Zingaro risale al 1976. ‪La sera del 31 dicembre del 1975 l’autista dell’Atac Vittorio Bigi scompare. Il suo corpo viene ritrovato cinque giorni dopo in un prato poco distante da via di Pietralata. Mastini e Giorgio Mauro, entrambi quindicenni, avevano rapinato un tassista e avevano fatto fermare Bigi, che stava tornando a casa dopo il turno di lavoro. Lo avevano costretto a dargli portafogli e orologio e, secondo la deposizione di Mauro, era stato Mastini a sparargli con una calibro 38 due colpi alla schiena, mentre Bigi credeva di essere libero, dopo aver pagato il prezzo della rapina. Grazie alla testimonianza del tassista, i due vengono presi. Lo Zingaro entra per la prima volta nel carcere di Casal del Marmo, e ancora non ci muoviamo dal quadrante nord di Roma. Il minorile di Casal del Marmo è un istituto piuttosto tranquillo, già negli anni Settanta, immerso nel verde a poche centinaia di metri dal manicomio Santa Maria della Pietà. Qui con Giuseppe Mastini c’è anche Pino Pelosi, l’assassino di Pasolini, morto lo scorso 20 luglio. I due hanno la stessa età, fanno praticamente la stessa vita. E a unirli è il famoso anello che la notte del 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia fu ritrovato accanto al corpo dello scrittore, l’anello con la pietra rossa e la scritta United States Army che Pelosi cercava inizialmente nell’auto di Pasolini. Perché Pelosi prima dice che quell’anello lo aveva comprato da un assistente di volo, poi dice che è un regalo di un certo Johnny, probabilmente Johnny lo Zingaro. Nel 1986, subito dopo il secondo arresto per omicidio di Mastini, è il legale della famiglia Pasolini, Nino Marazzita, a coinvolgere formalmente Mastini nelle indagini per l’omicidio. Ma l’ultimo filone del processo si è chiuso a Roma nel 2015 con una archiviazione. “In questi anni ci sono stati sospetti pesanti nei confronti di Mastini”, dice al Foglio il suo legale, l’avvocato torinese Enrico Ugolini, che fino a poco prima della fuga dello Zingaro stava lavorando, insieme con il suo assistito, a una richiesta di grazia da presentare al presidente della Repubblica. “Il percorso che stavamo facendo assieme era quello verso la semilibertà”, dice Ugolini, che però condanna il trattamento riservato in questi trent’anni a Mastini: “Vorrei far capire che la richiesta che si vuol presentare non è una boutade a fini giornalistici, ma mi pare che abbia basi solide che vanno valutate attentamente, soprattutto per una persona che si è fatta 37 anni di carcere. Ha provocato dolore, e massimo rispetto per chi quel dolore l’ha patito, ma sarebbe importante per fare una riflessione sul concetto di ergastolo, che non dovrebbe esistere”. Ugolini difende Mastini da un paio di anni, e alla fine degli anni Novanta l’ergastolano aveva già presentato una richiesta di grazia, respinta. Per l’avvocato, che da mesi sta ricostruendo tutte le accuse pregresse del suo assistito, ci sono molte cose che non tornano. Fatti che potrebbero aver contribuito in qualche modo al comportamento criminale di Mastini. Per esempio, per quanto riguarda la condanna per l’omicidio dell’autista dell’Atac Vittorio Bigi: “Durante il processo il tribunale dà una consulenza al prof. Giovanni Bollea, che fece la perizia insieme con Franco Ferracuti”, dice Ugolini. “Una perizia collegiale, fatta da due luminari. Anche perché c’era stata una prima perizia, poi annullata perché i consulenti avevano lavorato male. Ad ogni modo Bollea e Ferracuti giungono alla conclusione che entrambi gli imputati sono incapaci di intendere e di volere, ma nonostante ciò il tribunale reputa Mastini capace. Inoltre sull’omicidio Bigi le prove scientifiche non ci sono, c’è una condanna sulla base del fatto che i due ragazzi in un primo momento avevano confessato”. Due settimane dopo l’arresto, lo Zingaro riesce a evadere dal carcere di Casal del Marmo. “Il 2 febbraio, assieme ad altri quattro giovanissimi detenuti, tra cui il suo complice nel delitto, organizza un agguato alle guardie carcerarie. Il gruppo le assale, le stordisce con i sostegni metallici delle brande e si dà alla fuga”. A scrivere è Antonio del Greco, ex dirigente della Omicidi romana, che insieme al cronista di nera Massimo Lugli ha pubblicato da poco “Città a mano armata” (Newton Compton), una ricostruzione dettagliata dei più mediatici casi di cronaca nera degli ultimi anni. Del Greco conosce bene Mastini, perché è lui ad aver guidato l’operazione che ha portato alla sua cattura nel 1987. Ma anche Massimo Lugli conosce bene Mastini: lo ha incontrato più volte, e lo ha intervistato. “In effetti ho intervistato tantissimi detenuti”, dice al Foglio Lugli, “sono tutor al premio letterario Goliarda Sapienza, spesso capita che resti in corrispondenza, sai, tra i detenuti e il giornalista si crea spesso un’empatia. Ma lui è un pezzo di merda, recita male, non ha neanche la dignità, non faceva compassione. E’ un cattivo”.

 

"Dopo un po' di tempo si rende conto che da quel carcere non si evade e allora gioca la carta della buona condotta"

Dopo ventiquattro ore dalla prima fuga – e siamo ancora nel 1976 – lo Zingaro si riconsegna. Viene rinchiuso nel più sicuro carcere dell’Aquila. L’anno successivo organizza un’altra fuga, con quattro compagni. Scappa a Roma, la polizia lo prende in tempo per il processo (non solo per omicidio, ora anche per evasione). A Mastini vengono dati undici anni di carcere. Mauro se la cava con tre, e non di carcere, ma di riformatorio. Lo Zingaro viene trasferito al carcere di Pianosa di Puglia. Ma riesce a evadere anche da lì, e per due anni resta a Roma, dove “si mette in combutta con la mala romana perché ha bisogno di soldi”, scrive Muzio Pignalosa sul Messaggero del ‪25 marzo dell’87. Quando lo arrestano di nuovo, lo mettono nel carcere di Rebibbia, sorvegliatissimo. “Dopo un po’ di tempo si rende conto che da quel carcere non si evade e allora gioca la carta della buona condotta. Se la gioca così bene che convince il magistrato a concedergli un permesso di otto giorni”, scrive Pignalosa. ‪Il 3 febbraio del 1987 Giuseppe Mastini esce dal carcere di Rebibbia. E non vi fa più ritorno.

 

E’ la notte fra l’8 e ‪il 9 marzo del 1987. Siamo a via Monte Caminetto, una campagna isolata che fa parte del comune di Sacrofano ma si trova a pochi minuti d’auto dalla via Salaria, poco più a nord del cimitero di Prima Porta. Sono le undici di sera e Paolo Buratti, architetto trentasettenne e console italiano in Belgio, dorme nella sua villa insieme con la moglie Marie Veronique Michelle. Si sentono dei rumori. Un uomo entra nella villa a volto scoperto. Prima fruga nei cassetti, prende gli oggetti di valore che trova, poi si avvicina al letto dove si trovano ancora i due coniugi, e spara a entrambi. Paolo Buratti muore subito, il malvivente spara alla testa anche alla moglie, ma per un miracolo il proiettile della pistola semiautomatica le sfiora la testa. Arrivano i carabinieri, che fanno i primi rilievi – il resto dell’indagine sarà di competenza della polizia. Alle 3 e 35 del mattino la signora Buratti fornisce la prima identificazione: i carabinieri le mostrano sei fotografie di sei diversi pregiudicati. La Buratti indica la fotografia di Giuseppe Mastini, evaso da più di un mese dal carcere di Rebibbia. “Perché i carabinieri le fanno vedere sei fotografie tra cui quella del Mastini?”, si domanda l’avvocato Ugolini. Fino ad allora, lo Zingaro aveva lasciato altre tracce. Una serie di rapine a distributori di benzina e furti d’auto, avvenuti tutti nel quadrante nordest di Roma. Per l’avvocato, però, non si hanno precedenti di Mastini nella zona di Sacrofano (anche se, come abbiamo detto, Monte Caminetto non è così distante dal Raccordo anulare). Lo Zingaro si è sempre dichiarato innocente per quel che riguarda l’omicidio di Buratti. Lo ha ripetuto anche a Massimo Lugli, durante un’intervista su Repubblica del 1998: “Con l’assassinio di Sacrofano non c’entro: non avrei mai fatto una cosa del genere. Tant’è vero che in primo grado sono stato assolto”, dice Mastini a Lugli. Però poi la Corte d’Assise d’appello lo condanna, e la Cassazione conferma il secondo grado. In primo grado, secondo la ricostruzione fatta dall’avvocato Ugolini, la testimonianza della vedova non era stata considerata attendibile. Ma è lei l’unica testimone dell’omicidio del marito. “La ricognizione fotografica normalmente si fa quando si hanno già altri elementi a carico dei sospettati”, dice Ugolini, “la pistola dotata di silenziatore artigianale automatica era diversa da quella usata per le altre rapine, che tutti riconoscono come una pistola a tamburo”. E poi ci sono i capelli biondi ossigenati di Mastini, a volte indicati come scuri, il fatto che nella sentenza d’Appello non si faccia riferimento ad alcun rilievo scientifico. Secondo Ugolini, oggi, con la procedura penale moderna, un processo del genere non si sarebbe celebrato così, non senza “la riaudizione della testimone chiave”. “Ricordati che Angelo Izzo era stato considerato riabilitato”, dice Massimo Lugli al Foglio, “Ma ne vediamo ogni giorno. Pensa a Igor il Russo. I test psicologici sono fatti male, funzionano solo con i detenuti che collaborano. Voglio vedere chi è quello psicologo che capisce che sta mentendo. Dio ci guardi dalle perizie psicologiche, quelli sono maestri di menzogne”. E’ facile immaginare, dunque, dopo l’ultima evasione di Mastini, la situazione di Michelle Buratti, unica testimone di un omicidio avvenuto trent’anni fa.

 

E' facile immaginare, dopo l'evasione, la preoccupazione della vedova Michelle Buratti, unica testimone dell'omicidio di Sacrofano

Il 25 marzo del 1987 il Messaggero titola in prima pagina: “Rapisce una donna e uccide un agente. Inseguimento, sparatorie. Gigantesca ‘caccia all’uomo’, preso”. La sera del giorno prima era iniziata con una frase: “Dimentica le nostre facce e stai tranquilla. Tanto non ci prenderanno mai”, dice il ventisettenne Giuseppe Mastini a Silvia Leonardi, ventiquattro anni, che era ferma sotto casa a fumare una sigaretta in macchina con un amico. Fanno scendere l’uomo puntandogli la pistola, nell’auto con Silvia ancora al posto del passeggero salgono lo Zingaro e Zaira. Iniziano venti ore di follia, almeno cinque auto rubate per far perdere le proprie tracce. Alle due del mattino, Antonio del Greco viene svegliato dall’ispettore di turno, riconoscono nella descrizione dell’amico di Silvia Leonardi il profilo di Mastini. Inizia a seguire la fuga dello Zingaro prima a bordo di una Lancia, e racconta in “Città a mano armata”: “Due agenti del X Tuscolano stanno terminando il turno di servizio, in divisa ma su un’auto civile, una vecchia Fiat 128 […] Uno degli agenti nota la Lancia e, con l’istinto del poliziotto di razza, capisce che c’è qualcosa di strano e prende il microfono per segnalare la targa alla sala operativa, Doppia Vela 21, come la chiamiamo da sempre. Un gesto che gli costerà la vita. Dallo specchietto retrovisore, Giuseppe Mastini lo vede. Senza un attimo di esitazione inchioda, scende dalla Lancia, si avvicina alla 128 e apre il fuoco. Michele Girali resta ferito a morte. Il suo collega, Mauro Petrangeli, rimarrà menomato. Giuseppe Mastini apre lo sportello e s’impossessa delle armi in dotazione alla pattuglia: una Beretta 92 e una mitraglietta M12. Poi salta al volante della Lancia e via”. Johnny lo Zingaro spara ancora, nelle ore successive. Di nuovo pure a un carabiniere, ferendolo. Dopo la notte di fuga, cerca rifugio da una parente di Silvia Leonardi, che però non apre la porta. Arrivano alla Bufalotta, Mastini decide di lasciare libera Silva: “Vattene. Nasconditi per tutto il giorno nella macchia. Se ne vieni fuori prima poi torniamo e ti ammazziamo”, le dice, come riportato dal Messaggero. Zaira viene abbandonata poco dopo, verso Monterotondo, sempre più a nord-est. Mastini prosegue a piedi, ma nel frattempo ci sono centinaia di uomini e cani che lo cercano, nella macchia tra Mentana fino a Palombara Sabina, in un raggio di quindici chilometri. Mastini è braccato, ha paura che la polizia lo uccida. Alla fine si arrende, e si consegna. Le foto del suo ingresso in questura sono ovunque, il giorno dopo.

 

Nel 1998, a Massimo Lugli diceva: “Sono cambiato. Sono un’altra persona, dopo tanta galera. Se solo mi dessero il modo di dimostrarlo… Ho chiesto di essere posto in osservazione volontariamente per dimostrare che ho i requisiti per un permesso. Che cosa posso fare per far vedere che sono diverso, che ho capito il male che ho fatto e me ne pento?”. Su Johnny lo Zingaro sono state scritte sceneggiature, film, romanzi, migliaia di pagine di profili criminali. Forse nessuno ha mai capito davvero chi sia.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.