Khadiga Shabbi in un filmato della Polizia di stato

Chi è la donna che istiga al terrorismo ma a cui l'Italia dà protezione umanitaria

Cristina Giudici

Parla Khadiga Shabbi, ricercatrice libica dell'Università di Palermo: "Sono contro l'Isis ma a favore della sharia in Libia. Perché ci trattate come terroristi?". Se tornasse in patria, dice, sarebbe uccisa dagli uomini di Haftar

“Io sono contraria all’Isis e al terrorismo, vorrei solo vivere pacificamente in una repubblica islamica dove si possa applicare la sharia. Ma perché noi libici che vogliamo vivere secondo la leggi islamiche abbiamo sempre tutti contro, inglesi, americani, francesi e siamo sempre accusati di essere terroristi?”. Questa è l’unica concessione che ci ha fatto la ricercatrice libica Khadiga Shabbi, 47enne, condannata il 3 febbraio per istigazione al terrorismo, dopo che siamo riusciti a raggiungerla telefonicamente nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, vicino Fiumicino, a cui poche ore fa la commissione prefettizia preposta a valutare le richieste dei richiedenti asilo ha concesso la protezione umanitaria. Un caso inedito e clamoroso, quello di Khadiga Shabbi.

 

 

La donna proviene da una famiglia benestante di Bengasi, ma originaria di Misurata. Arrivata a Palermo nel 2012 con una borsa di studio della facoltà di economia, Khadiga aspettava da marzo la concessione della protezione umanitaria, richiesta dal suo legale Michele Andreano, poiché sia lei sia la sua famiglia hanno sempre appoggiato la rivoluzione islamista, prima contro Gheddafi e poi contro il generale Khalifa Haftar. Il Foglio ha dedicato alla sua doppia vita di ricercatrice di giorno e propagandista di notte un lungo articolo il 25 settembre scorso, in cui si spiegava come la donna usava i social network per fare propaganda, soprattutto dopo la morte del nipote, combattente della brigata jihadista di Bengasi chiamata “One Shield” e guidata dal cugino, Wissam Ben Hamid, legato al gruppo di Ansar al Sharia (il suo nome appare anche in un report del Congresso americano sui terroristi di al Qaida).

 

Condannata il 3 febbraio a una condanna più mite di 1 anno e 8 mesi per istigazione al terrorismo, ha usufruito dei benefici di legge per le condanne brevi ed è stata scarcerata per poi finire nel Cie in attesa di essere espulsa. In seguito, la richiesta di protezione umanitaria ha fermato il rimpatrio. Infatti nel verbale della riunione con la commissione preposta alle richieste d’asilo, che il Foglio ha ottenuto, lei aveva giustificato in questo modo la sua richiesta di protezione: “Io su Facebook scrivevo contro la formazione del generale Haftar che comanda a Bengasi. La mia famiglia è molto conosciuta, mio fratello ha dovuto scappare, mio nipote (Abdelrazeq Fathi al Shabbi) è morto e anch’io sono stata minacciata. Se arrivo a Tripoli rischio la vita. Io sono originaria di Misurata e come è stato ucciso mio nipote e portato via mio fratello, anch’io potrei rischiare la vita perché i servizi segreti di Gheddafi sono ancora attivi e i 'ragazzi', i ribelli di Bengasi, hanno partecipato sia alla prima rivoluzione sia alla seconda”. L’indagine nasce quando lei cerca di far venire in Italia il nipote mujahed (combattente, ndr) che è in pericolo in quanto ricercato dalle milizie del generale Haftar. La Digos si allerta, intercetta Khadiga, segue i suoi profili, le sue conversazioni in chat chiuse con gli islamisti e persino con un comandante della famigerata brigata al Battar per chiedere di vendicarlo (al Battar è formata da circa 300 veterani libici protagonisti nella presa di Mosul in Iraq e poi tornati in Libia per formare il Califfato). Il suo appello non cade nel vuoto e un comandante le risponde: “Faremo vendetta anche se ci vorrà del tempo”. Certo, Khadiga Shabbi in molte intercettazioni dimostra diffidenza verso i battaglioni dello Stato islamico in Libia e discute animatamente con amici e parenti perché non vuole accettare che i ribelli protagonisti della rivoluzione prima contro Gheddafi e poi contro Haftar abbiano fatto un patto con i mujaheddin del Califfato. La sorella le racconta persino di essere andata in un campo di Ansar al Sharia a portare cibo ad amici e parenti. “Io sono all’estero da diversi anni, la guerra ha costretto tutti gli islamici che hanno combattuto Haftar a unirsi, ma io non sono a favore del terrorismo. Ho contattato dei combattenti perché ero affranta per la morte di mio nipote”, dice Khadiga al Foglio. Dopo la strage di Manchester commessa da un libico, il Viminale sta esaminando con l’intelligence inglese l’eventualità che la rete libica operativa in Inghilterra avesse legami in Libia. L'intelligence italiana teme che l'attentatore di Manchester sia passato dall’Italia costruendosi una rete di contatti nel nostro paese.

 

La decisone della commissione che ha preso in esame il caso di Khadiga avrebbe potuto essere condizionata dal contesto politico internazionale, anche se la strage di Manchester non ha relazione con la posizione della ricercatrice. “Io non mi sono mai occupata di quanto accade in Europa, mi interessa solo ciò che succede nel mio paese”, sottolinea la Shabbi. E in questa conversazione esclusiva, si difende così: “Sono state scritte molto bugie su di me. Io mi sono rivolta a un miliziano perché volevo vendetta. Non sono a favore di Ansar al Sharia, ma so che mentre ero in Italia a studiare la guerra contro il generale Haftar, [Ansar] ha costretto tutti i rivoluzionari ad allearsi. Se mi avessero espulsa sarei finita nelle braccia delle milizie del nostro nemico. La mia famiglia mi ha consigliato di non tornare perché sono in pericolo”. Khadiga Shabbi nega tutto ciò che viene confermato nelle motivazioni della sua condanna e al Foglio dichiara di non aver mai visto il cugino, Wissam Ben Hamid, che si è unito ad Ansar Al Sharia. Ma è stata proprio una critica rivolta a suo cugino a scatenare un litigio con una sua connazionale a Palermo e a minacciarla. “Ho solo scritto una frase, ho solo scritto una frase”, ripete come un mantra. “Voglio tornare a Palermo a studiare e quando sarà possibile tornare a casa, a Misurata. Ma ora non posso, la mia famiglia è troppo conosciuta”. Nelle motivazioni della condanna il giudice osserva con clemenza che durante gli interrogatori la donna ha fatto marcia indietro sulle sue posizioni radicali ed è per questo che le è stata concessa la sospensione della pena. E ora tornerà a studiare all’università a Palermo da sorvegliata speciale con uno status di rifugiata cui è stata concessa la protezione umanitaria per difenderla dalle milizie del generale Haftar.

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