La stazione Termini durante lo sciopero dei taxi (Foto LaPresse)

La mia vita senza taxi

Marianna Rizzini

Dopo sei giorni di protesta la sensazione di un’improvvisa e misteriosa riduzione del traffico, e una certezza: posso farcela anche se continuano a scioperare

Roma. La mia vita senza taxi è cominciata una sera senza preavviso, di mercoledì. Premessa e confessione: sono da qualche anno un regolare utente taxi che un tempo aveva il motorino (ora non più), un tempo aveva una macchina (poi rubata) e ora ha tutte le possibili tessere del car sharing anche se spesso non le usa (cause: macchine troppo lontane o introvabili nei dintorni immediati nelle ore in cui a me servono, figlia ancora troppo piccola per stare al posto del passeggero nella Smart della car-to-go, pigrizia per via del parcheggio difficile al ritorno in quel di Trastevere, fretta, impazienza, stanchezza, ritardo, abitudine di riempire la giornata all’inverosimile e le serate pure peggio).

 

Certo, era un po’ da viziati, il ricorso così frequente al taxi. Certo, facendo due conti, a fine mese, con i soldi spesi in taxi ci uscivano due cene (almeno) o una bolletta o sette cinema o un’ottantina di caffè. Ma, come ci dicevamo, semiseri, tra utenti taxi con senso di colpa economico-finanziario, “meglio il taxi dell’isteria”.  Che cosa poteva esistere di peggio, dunque, nel mio immaginario, di uno sciopero taxi lungo sei giorni, e questo nonostante la necessità di risparmiare e il caro-corse e l’esistenza delle suddette alternative meno esose? E invece. Invece il mercoledì senza preavviso s’è fatto notare, intanto, per la spettrale visione del Lungotevere davanti alla redazione, improvvisamente e inspiegabilmente sgombro nonostante l’orario di punta (19 e 45). “Meglio”, ho pensato, chiamando appunto un taxi (soltanto dopo tre tentativi andati a vuoto su tutti i centralini, un collega nella stessa situazione ha guardato le agenzie: “Sciopero selvaggio taxi senza preavviso”). Ah ecco. Non convinta, mi sono diretta a piedi al parcheggio di Largo di Torre Argentina, dove un gentile scioperante (non ancora incattivito da giorni di sciopero, evidentemente) mi ha detto che sì, c’era sciopero, che boh, non si sapeva quanto sarebbe durato, che no, era inutile che cercassi di chiamare mytaxi, l’altra app, perché tanto era uguale, e che il giorno dopo chissà – “intanto se non deve andare molto lontano vada a piedi”.

 

Vabbè, domani finirà, abbiamo pensato tra utenti anche un po’ compulsivi di taxi serali. Invece non finiva, lo sciopero. Vai a piedi un giorno, vai in car sharing il secondo, fatti dare un passaggio il terzo, vai in autobus il quarto, al quinto l’unica costante era la persistente sensazione di un’improvvisa e misteriosa riduzione del traffico, e di un’improvvisa e misteriosa certezza: posso farcela senza taxi persino di mattina con la fretta.

 

Esempio. Al quinto giorno, ormai rassegnata a trasformarmi in utente-bus fuori dalla traiettoria dell’unica linea che uso con una certa frequenza (linea 23 Trastevere-Testaccio), mi decido a consultare all’alba l’applicazione Moovit (come quando sono in altre città, ché è soltanto a Roma che l’idea dell’autobus affossa qualsiasi mio desiderio di spostarmi oltre la cerchia dei quartieri raggiungibili a piedi). Ed ecco che scopro, con mia sorpresa, che percorsi per me prima considerati proibitivi in autobus, avendo poco tempo (tipo Trastevere-Corso Trieste o Trastevere-Belle Arti nelle ore di punta) sono non soltanto fattibilissimi ma anche piacevolmente rapidi (“prendete l’autobus”, diceva Cesare Zavattini ai giovani sceneggiatori a corto di idee – fatto sta che ora ce lo stiamo dicendo tra vittime dello stop selvaggio). Permane il mistero che per eterogenesi dei fini lo sciopero sembra aver prodotto: il traffico sparito. Ma c’è anche la consapevolezza che, in generale, senza taxi è meno peggio di quanto sembrava. Prendendoci gusto, in un solo giorno, il sesto, mi lancio nella combinazione autobus-metropolitana, autobus-piedi, posto rubato nella macchina di un amico, car sharing con parcheggio spericolato. A un certo punto tento anche di contattare Uber, desistendo poi per la cifra richiesta. E insomma, dai e dai, io non so, cari taxi, se dopo questo sciopero tornerò mai ai taxi.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.