Antonio Di Pietro all'epoca di Mani Pulite (foto LaPresse)

Cosa resta del patto tra pm e giornali 25 anni dopo Tangentopoli

Nicola Imberti

Parlano gli "eretici" di Mani Pulite Cimini, Sansonetti e Facci

Roma. “La vera separazione delle carriere che la politica dovrebbe fare è quella tra giornalisti e magistrati inquirenti”. Frank Cimini pronuncia la frase con leggerezza, a mo’ di battuta. Confermando la capacità, che in tanti gli riconoscono, di dire sempre quello che pensa. Soprattutto quando si tratta di magistrati. Per gli etichettatori seriali è una “voce fuori dal coro”. Fin da quando, dopo aver fatto il ferroviere e il giornalista praticante del Manifesto, entrò per la prima volta al Palazzo di Giustizia di Milano, alla fine degli anni Settanta. Poi, nel 1992, l’inizio di Tangentopoli. Da cronista del Mattino Cimini racconta ciò che sta accadendo. Anche quello che gli altri sembrano non vedere. Anni dopo ci sarà chi scriverà di un patto tra magistrati e giornalisti. Informazioni selezionate e distribuite accuratamente alla stampa, telefonate tra i vertici dei principali quotidiani per decidere la linea, articoli che colpivano con precisione chirurgica. “In realtà – spiega al Foglio – questo meccanismo che lega inquirenti e mezzi di informazione c’è sempre stato. Soprattutto nella fase delle indagini preliminari in cui il pm è il signore assoluto. Durante Tangentopoli ci fu uno scambio. Gli editori dei ‘giornaloni’ si schierarono e ottennero l’impunità. Fu un do ut des”. Insomma, per Cimini, non c’era bisogno di sottoscrivere accordi, tutto si svolse quasi “naturalmente”. Meno “naturale” fu invece il potere che i magistrati si trovarono a gestire: “Dopo che la politica aveva affidato il compito di risolvere il problema del terrorismo, nel 1992 decisero di ‘presentare il conto’. Vedendo che la politica era debole, decisero di scardinarla. Così diventarono un potere che nessuno è più riuscito ad arginare”.

 

Eppure guardando a ieri e a oggi, è difficile non cogliere delle analogie, un paradigma che si ripete. Soprattutto quando si parla di inchieste giudiziarie che finiscono centellinate sulle pagine dei giornali. “E’ vero – dice Piero Sansonetti – il paradigma è lo stesso, ma c’è una differenza sostanziale”. Sansonetti, che adesso dirige Il Dubbio, nel 1992 era all’Unità, ed è stato uno dei primi a raccontare di quel “pool” di giornalisti e direttori che, in maniera coordinata, pubblicava le notizie fornite dai pm di Milano. “Quel patto non è mai stato sciolto. Ma a quell’epoca c’era un disegno politico molto preciso. Il pool di Milano si sentiva investito di un compito etico, quello di purificare la società e lo stato. L’obiettivo era demolire la democrazia dei partiti. Che infatti da allora non è più esistita, mentre la magistratura ha conquistato un potere politico abnorme che nessuno ha più messo in discussione”. “Oggi – aggiunge – non vedo un disegno preciso. Certo, il meccanismo è lo stesso. Prenda il caso Raggi. Si vìola il segreto d’ufficio, i quotidiani pubblicano le stesse notizie con gli stessi titoli, ma qual è il disegno? Mi sembra difficile sostenere che la magistratura voglia colpire i grillini. Piuttosto direi che si tratta di gruppi singoli che puntano a garantirsi il proprio potere. A mostrare la loro forza. E comunque resta una domanda: perché davanti a violazioni palesi del segreto d’ufficio non ci sono mai indagini?”.

 

Filippo Facci, altro giornalista “eretico” di quella stagione nonché autore di un libro dal titolo “Di Pietro. La storia vera”, non vede un parallelismo tra passato e presente: “Quello che accadde con Tangentoli è un fatto mai accaduto prima. C’era un pool di giornalisti che comprendeva tutti e la distribuzione era equanime. Non solo, alcuni cronisti erano apertamente schierati e il loro comportamento aveva dei fini istruttori. Perché i materiali, le carte, i nomi che venivano forniti servivano per favorire il pellegrinaggio in procura dei protagonisti di quelle inchieste. Prima di allora c’erano degli schieramenti: ad esempio il Corriere con il Giornale, Repubblica con l’Unità. Ma servivano più che altro per coprirsi in maniera minima su alcune notizie”. E poi c’era il contesto. “Il 95 per cento dell’opinione pubblica era schierato. Anche allora c’era la crisi economica – sottolinea – ma si pensò che il malcontento potesse essere canalizzato e che la colpa definitiva potesse essere attribuita ai tangentari. Oggi no. C’è una tale indolenza. Le vicende della Raggi, ad esempio, sono imbarazzanti sia perché insopportabilmente faziose, sia perché i grillini reagiscono in maniera scomposta riproponendo, quasi 50 anni dopo, campagne contro un altro Calabresi. Ma non ci vedo né un particolare protagonismo dei pm, né la volontà di renderli protagonisti. Mi pare più una forma di gratificazione. Un compiacimento, un mantenere alta l’attenzione mediatica attorno a inchieste che ci rendono protagonisti”.

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