Il rostro tambureggiante di Picus annuncia la primavera sacra e apre la via degli avi (a chi voglia seguirlo)

Alessandro Giuli
La prima volta che avvertii nitidamente Picus ero sul Monte Olimpo, quasi dieci anni fa, immerso nelle fragranze boschive della Tessaglia. Sopra una pietra levigata da Borea, come un altare naturale, fumigavano resine di pino offerte alla Vittoria.

    La prima volta che avvertii nitidamente Picus ero sul Monte Olimpo, quasi dieci anni fa, immerso nelle fragranze boschive della Tessaglia. Sopra una pietra levigata da Borea, come un altare naturale, fumigavano resine di pino offerte alla Vittoria. E a un certo punto echeggiò da chissà quale ramo il rostro tambureggiante del picchio, presenza ignita, giunto forse con noi dall’Italia… Segno fausto, avrei constatato.

     

    L’altro giorno Picus si è addirittura mostrato, a Roma, annunciando dolcezze primaverili e ponderose responsabilità cui attendere. Picus Furrinalis, parente di una dea equorea, terrifica e misteriosa (Furrina) sotto la cui tutela cade fin dall’antichità un ampio bosco sul Gianicolo. Il picchio, come sa chi conosce la storia di Roma, appartiene anzitutto a Marte e infatti ha contribuito a sfamare i Gemelli concepiti dal nume e allattati dalla sua famosa lupa. Ma Picus è anche altro, per cominciare un re. Virgilio ci ricorda che fu lui, figlio di Saturno, a fondare la città di Laurentum e a inaugurare tramite suo figlio Fauno Luperco (il titolare del Lupercale!) il lignaggio dei Latini. “Lo stesso Pico, domatore di cavalli, con il lituo / quirinale, sedeva succinto dalla breve trabea / e reggeva con la sinistra un ancile”. In questi versi il vate di Enea sta descrivendo le immagini dei vetusti avi, scolpite in legno di cedro, troneggianti nel palazzo regale del re Latino, che di Pico è nipote. Picus regge con la sinistra lo scudo bilobato di Marte (ancile), impugna il bastone augurale (lituo) e indossa la purpurea sopravveste sacerdotale (trabea) tipica di coloro che sanno interpretare il volo degli uccelli, quegli Augures schiettamente latini che Roma avrebbe poi riunito in un aristocratico collegio.

     

    E’ dunque un nume oracolare, un dèmone fondatore e un eroe civilizzatore, il nostro Picus, le sue fattezze sembrano umane ma egli si manifesta tramite un uccello fatidico. Secondo una tarda variante mitistorica, sarebbe stata la temibile maga Circe a trasformarlo così – “presa da brama nuziale, lo aveva percosso con la verga d’oro, e mutato / con filtri l’aveva reso un uccello, spargendogli di colore le ali”, dice ancora Virgilio ma i sostenitori della grande dea mediterranea (da Uberto Pestalozza a Momolina Marconi) non hanno granché da esultare: Picus, rex Aboriginum (Festo), è sopravvissuto e ha lasciato dietro di sé una scintillante discendenza. E fra coloro che in Picus riconoscono l’avo primigenio ci sono non soltanto i Latini ma anche i Picenti (giovani picchi!) partiti dalla Sabina al suo seguito in un tempo remoto, nella ricorrenza di una primavera sacra, come ha testimoniato Silio Italico: “Hoc Picus quondam, nomen memorabile ab alto Saturno, statuit genitor”.

     



     

     

    Come suo figlio (o a dir d’altri fratello) Fauno, e più ancora di lui che pure ebbe un culto pubblico in Roma, Picus esprime la forza numinosa immanente allo sbocciare di una età aurorale dell’esistenza, un tempo di cacciatori e pastori ancora lontani dalla vita agreste e stanziale. Più prossimo al bifronte Giano che ai quiriti di cui comunque sarà modello sacerdotale, ma ancora più simile al potente e panico Fauno che al dio primordiale dei passaggi e dei cambi di stato, Picus è un numen silvestris “… essere iniziatore semidivino e semiumano, teriomorfo e pronto alla metamorfosi, abitante dei boschi, oracolare… legato da singolari rapporti al mondo dei morti, ma fondatore delle più importanti e vitali istituzioni umane tecniche, sociali e religiose…” (Angelo Brelich). E quando si manifesta in compagnia di Fauno-Pilumno, Picus viene chiamato Picumno: insieme, i due abitano la linea di confine tra l’indistinto selvatico e l’ordine civico, svolgono un ruolo centrale nei coniugi e proteggono i neonati; fondano e fecondano (Pilumno con qualche eccesso…)

     

    Non a caso il Capodanno religioso romano è ancorato a marzo (mese di Marte e ovviamente di Picus Martius!), cioè alla primavera fiorente di energie e colori squillanti come le penne del picchio, rorida di acque benefiche (il picchio che garrisce spesso annuncia pioggia) e inondata dal Sole che tutto governa.

     

    Picus Furrinalis parlò appunto a ridosso dell’equinozio di primavera, quando il Sole entra in Ariete e ripristina l’equilibrio consumatosi nel corso dell’anno zodiacale; e ogni cosa diventa nuovamente possibile. Chi lo voglia, sappia che questo è il momento perfetto per completare la propria purificazione nell’agire e nel pensare, opera iniziata a febbraio, e toccare l’essere profondo. Come ogni fase aurorale del cosmo ha bisogno del suo nume fondatore, così ogni primavera ha bisogno del suo animale totemico e del suo eroe civilizzatore dietro ai quali marciare. Fuor di metafora (ma ci rientriamo subito): nel momento in cui il giorno e la notte si allineano nella medesima durata (Sole in Ariete), a ciascuno è data la possibilità di costruire una cittadella interiore centrata in un fuoco sacro, con mura possenti, cardo e decumano, leggi patrie, tribunali, milizie… un luogo dell’anima nel quale rendersi inaccessibili alle brutture della vita ordinaria, alle contaminazioni moderne, alle superstizioni desertiche che travolgono le menti deboli, al disordine e a chi fa disordine… un luogo in cui essere eroi fondatori, trovare asilo all’occorrenza e poter dire con Scipione Africano: non si può stare in compagnia migliore, quando si è soli con gli Dei. Tutto sta a volerlo, per cominciare, poi bisognerà ascoltare i segni, cercare una via, magari seguendo l’istinto e l’esempio. In una parola: Picus.