Una scena tratta dal film "Una questione privata"

Alla Festa del Cinema ci si diverte, basta non vedere il film di Taviani

Mariarosa Mancuso

Non si maltratta così l’incolpevole Beppe Fenoglio. Piuttosto consigliatissimi "The Party"  e "Detroit"

Alla Festa del Cinema ci si diverte, basta scegliere i film giusti. Basta scartare per esempio “Una questione privata” di Paolo Taviani (il fratello Vittorio ha lavorato solo alla sceneggiatura, ma non tutti i crediti concordano sulla divisione dei compiti: diciamo che è un film dei Taviani). Non si maltratta così l’incolpevole Beppe Fenoglio, caricandolo di una retorica che non gli appartiene. E invece fa da zavorra a tutto il cinema italiano che racconta la guerra e la resistenza. Non si maltrattano così le scolaresche, costrette a vedere il film come parte del programma scolastico (uscirà nelle sale il primo novembre). Per via dell’equazione: “viene da un’opera letteraria, dev’essere cultura”.

 

 

 

Oltre alla retorica, c’è il vizio del raddoppio. Altra particolarità del cinema italiano che non si fida dei propri mezzi. Se un soldato nelle Langhe – un signorino di buona famiglia – si mette il borotalco e si infila il pigiama prima di sdraiarsi nella mangiatoia e usare il fieno come coperta, o vediamo la scena o la sentiamo raccontare. Qui prima la sentiamo raccontare, o poi inutilmente la vediamo (bisognava raggiungere il minimo sindacale di 84 minuti, ma sembrano molti di più).

 

Raddoppia anche l’attore, l’ufficio casting deve essersi distratto. Luca Marinelli - nella parte di Milton - e Lorenzo Richelmy nella parte dell’amico e rivale in amore sono troppo simili (e gli abiti anni 40 aggravano la situazione) per corteggiare la stessa ragazza mentre il giradischi suona sempre “Over the Rainbow”.

 

Basta correre a vedere “The Party” di Sally Potter, dove la regista - che ricordavamo meno affezionata al cinema artigianale e più incline alla sperimentazione – in settanta minuti, meno dei Taviani – mette su la sua versione di “Carnage”. Il film lo aveva diretto Roman Polanski – se ancora si può nominare, le femministe volevano far cancellare una retrospettiva alla Cinémathèque di Parigi (detto per inciso: solo l’intelligenza e la bravura di Yasmina Reza – sua la pièce teatrale da cui il film è tratto – potrebbe salvarci dalle idiozie sul porco e l’orco: facciamo una colletta per pagarla, che ci faccia capire quanto siamo ridicoli).

 

 

Basta correre a vedere “Detroit” di Kathryn Bigelow, che certo divertente non può dirsi. Ma è sublime cinema sui neri, sugli anni sessanta, sulle rivolte e sulla polizia che facilmente spara (quando solo finge di farlo è quasi peggio). Sarà nei cinema italiani il 23 novembre, dopo “Dunkirk” di Christopher Nolan è l’altro film da vedere assolutamente. Altro che 3D, altro che occhialini. Una sceneggiatura ben scritta – da Mark Boal, già aveva fatto coppia con la regista per “The Hurt Locker” e per “Zero Dark Thirty” – e una macchina da presa mossa come l’arte comanda, tra attori che non sembrano recitare, sono molto più efficaci per far entrare lo spettatore dentro la storia. 

  

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